L’eredità dell’ostetrica
L’eredità dell’ostetrica è anche un libro edito da Manifestolibri
Al Teatro Stabile Sloveno di via Petronio, viene presentato per la prima volta a Trieste lo spettacolo “L’eredità dell’ostetrica”, di e con l’attore triestino Maurizio Zacchigna, assistito in scena dal contrappunto in musica di Riccardo Morpurgo al piano e Luca Colussi alla batteria. Solo per questa replica triestina è prevista la partecipazione straordinaria dell’attrice Maria Serena Ciano che impersonerà idealmente la figura dell’ostetrica.
E’ un teatro in forma di cabaret che, ora promosso dalla produzione con il Teatro Club di Udine, parte da un testo-copione dello stesso Zacchigna, edito da Manifesto Libri. Con provocazione satirica e a tratti francamente divertente, l’autore, tra ricordi autobiografici e una rigorosa documentazione storica, vi ripercorre la storia travagliata di Trieste, la sua città. Città di frontiera e dai confini contesi, multietnica, porto glorioso dell’impero austro-ungarico, scenario privilegiato degli irredentismi risorgimentali e dei successivi nazionalismi.
“Paradigma” per eccellenza, insomma, di quanto può avvenire quando i “patriottismi a prescindere” – ironizza Zacchigna- diventano armi xenofobe contro un’altra etnia. Contro gli sloveni-“sciavi”, ad esempio, minoranza o maggioranza etnica a seconda del pendolo della storia, sbandierati come minaccia per l’integrità dell’”identità” triestina o, meglio, italiana, surrettiziamente costruita e difesa da nazionalisti, fascisti e rigurgiti di nuove destre.
Di questa storia travagliata Zacchigna ricostruisce i tasselli con ironia satirica, umore graffiante, calore anche autobiografico, amore civile per la verità e per un’ipotesi di convivenza pacifica utile al futuro. Ed ecco, a ritroso nel tempo, i primi anni del ‘700, quando Vienna dichiara la città Porto Franco e dà il via alla creazione del grande emporio adriatico, destinato a fare dell’Austria una potenza marittima e commerciale. I commerci e gli scambi portano in città nuovi insediamenti: serbi, montenegrini, armeni, turchi e greci. Poi arriva il 1848, con i primi moti insurrezionali, e l’800 triestino si colora di minaccioso nazionalismo. In seguito, scoppia il primo conflitto mondiale. E poi il fascismo. Le leggi contro gli sloveni, l’obbligo di abbandonare la lingua madre. E ancora la seconda guerra mondiale, con due immagini drammatiche e contrapposte: le Foibe e la Risiera di San Sabba. “L’occupazione jugoslava del ‘45 –racconta Zacchigna- era durata quaranta giorni. Poi Stalin, impicciato altrove, aveva tolto il suo sostegno a Tito e il Maresciallo si era ritirato a pochi chilometri dalla città…quando il 9 giugno del ’45 inglesi e americani si insediavano a Trieste. Altre pallottole, inglesi stavolta, strapperanno dal caffè sei giovani che nel ’53 manifestavano per il ricongiungimento all’Italia, cosa che avverrà neanche un anno dopo”. Insomma, dal 1918 al 1954 sulla città hanno sventolato “l’aquila austriaca, il tricolore sabaudo, il fascio littorio, la svastica e la stella rossa jugoslava, l’Union Jack e le stelle con le strisce. Chiuse il carosello il tricolore repubblicano che prese a garrire su una città sfinita, divisa e pronta a emigrare”. E qui finisce la storia da raccontare, mentre intanto rigurgiti ricorrenti di ostilità al bilinguismo continuano a ricercare fili di contatto con quel tenebroso passato in cui si sognava di trasformare la città in una “Roma d’Oriente”.
E’ questo che racconta l’”eredità dell’ostetrica”, monologo-orazione civile, che parte da un affilato manualetto di storia politico-sociale, a ritroso nel tempo. Un viaggio nel “crogiolo” di una città che all’esterno è percepita come paradiso esotico di multiculturalità, periferia mitica di “Austria felix”, quando invece è stata (o è?) concentrato di risentimenti e divisioni, tra comunità, confini, idee e lingue.
Sono scheletri che la vis da contro-informazione di Zacchigna fa uscire dall’armadio della Storia, per le vie di una parola teatrale virata all’azione terapeutica contro i luoghi comuni e i falsi della cattiva memoria.
Le ragioni di uno spettacolo
Trieste è la sola città italiana dove, nell’arco di 36 anni, hanno garrito al vento sette diverse bandiere nazionali e si sono alternate altrettante forme di potere statale. Nel Novecento, è l’unica a ricongiungersi alla patria per due volte, ad aver ospitato un violento scontro nazionale e ad aver rappresentato il più significativo teatro italiano della guerra fredda.
Una certa retorica ama ancora definirla la più italiana delle città italiane, ma in realtà la sua storia e il suo sviluppo sono avvenuti per volontà di uno stato straniero, considerato il nemico.
Nonostante o, forse, in virtù della sua esistenza sospesa, in alcune delle sue case sono state scritte, in diverse lingue, alcune delle pagine più innovative della letteratura del Novecento europeo e la città ha visto stendersi sui lettini i primi psicoanalizzati di lingua italiana.
Nondimeno, ha assistito da vicino al più grande esodo di genti italiane che il paese ricordi, e in parte lo ha accolto. In Italia, è anche la sola città in cui un camino abbia emesso la cenere nazista. Davvero strana al sorte di questa città, da emblema dell’Impero Austro-Ungarico a testa di ponte del nazionalismo espansionistico fascista. Da laboratorio di convivenze nazionali a centro direzionale di una snazionalizzazione razzista. Da irrinunciabile obiettivo risorgimentale a provincia italiana estrema e dimenticata. Da polo culturale della Mitteleuropea a periferia marginale della Repubblica. Da capitale economica multietnica a mendicante di sussidi statali repubblicani.
Da ultimo, per cinquant’anni, Trieste si è ritrovata l’ultimo avamposto italiano dell’Occidente, a contemplare frustrata, da questa scomoda e involontaria posizione, un confine politico-ideologico tracciato a cinque chilometri dal centro storico. Insomma, ce n’è a sufficienza per definire Trieste l’icona storico-politica del Novecento italiano. Eppure, quanti connazionali sanno pronunciare il suo nome con cognizione di causa? E perché una simile ricchezza di esperienze, invece di conquistarsi un ruolo più confacente, è finita nell’oblio o tutt’al più è in offerta nel bazar della retorica nazionalista? E perché la Repubblica non ha attinto alla storia triestina per corroborare la crescita democratica della nazione?
Su questi interrogativi L’eredità dell’ostetrica tenta di accendere un’impietosa luce verticale. La storia di Trieste, illuminata nei suoi lati oscuri, può rivelarsi un utile laboratorio di fatti per riflettere sull’Italia di oggi, dove troppi ri-parlano di razze e scontri di civiltà. E dove la seduzione per un anacronistico e violento protezionismo razziale si fa largo anche tra certa sua attuale (e immemore) classe dirigente.
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