La vita al tempo del Covid
Un progetto educativo che intende favorire la conoscenza di momenti della storia riguardanti crisi epidemiche e pandemiche attraverso la voce e i testi di scrittori e poeti che hanno raccontato o ricostruito quegli avvenimenti. Tale conoscenza diventa uno strumento per individuare paradigmi utili a interpretare la situazione presente dell’emergenza legata al Covid-19, trasformando un’esperienza negativa e anche dolorosa in un’occasione di crescita culturale ed esistenziale
Conferenze
L’avvio del progetto è affidato a quattro esperti proposti da Teatro Club Udine per altrettante conferenze rivolte ad insegnanti e studenti, precedute o seguite da lezioni dei docenti e da momenti di riflessione all’interno di ogni singola classe.
Lunedì 18 gennaio 2021 “Giochi di morte. La peste secondo Shakespeare (Romeo e Giulietta, 1597), Dryden (Edipo, 1678), De Foe (Diario dell’anno della peste, 1722)” Relatrice prof.ssa Marisa Sestito, anglista, traduttrice, già professore ordinario di letteratura inglese all’Università di Udine
Sul nostro canale YouTube (Teatro Club Udine Palio Festival)
potete trovare il video integrale della conferenza.
Lunedì 1 febbraio 2021 “Excursus letterario sui significati simbolici attribuiti alla peste” Relatore prof. Gianni Cianchi, docente di Storia del Teatro all’Accademia Nico Pepe di Udine.
Sul nostro canale YouTube (Teatro Club Udine Palio Festival)
potete trovare il video integrale della conferenza.
Mercoledì 3 febbraio 2021 ” Libera Nos Domine: La peste in Friuli tra medioevo ed età moderna” Relatore prof. Angelo Floramo, docente, scrittore, saggista e consulente scientifico della Biblioteca Guarneriana di San Daniele del Friuli.
Sul nostro canale YouTube (Teatro Club Udine Palio Festival)
potete trovare il video integrale della conferenza.
Mercoledì 10 febbraio 2021 “Una comunità di solitudini. Vita individuale, vita collettiva nel tempo del Covid 19″ Relatore Massimo Recalcati, psicanalista, saggista e docente universitario.
Sul nostro canale YouTube (Teatro Club Udine Palio Festival)
potete trovare il video integrale della conferenza.
Laboratori
Parallelamente al lavoro in classe con i docenti, che procede per stimoli, letture, ricerche e suggestioni, i laboratori segnano il punto di svolta del percorso: gli studenti da destinatari diventano protagonisti di un percorso che diventa anche produttivo e creativo. L’adesione ai laboratori è una libera scelta degli studenti anche se il numero dei partecipanti viene contingentato a causa della pandemia in corso.
LABORATORIO DI SCRITTURA CREATIVA a cura di Antonella Sbuelz, docente e scrittrice, Autobiografia come spazio di libertà. Titolo: Esplorarsi, dirsi, raccontarsi: scrivere di sé come spazio di libertà in momenti di crisi.
LABORATORIO DI FOTOGRAFIA a cura di Franco Martelli Rossi, fotografo e docente. Titolo: Rappresentazione visiva di un’epoca: l’idea iconografica del passato e il verosimile del presente. L’attività prevede anche due uscite per scatti fotografici in ambiente urbano.
LABORATORIO DI PROGETTO a cura di Francesco Accomando, attore e regista teatrale. Il laboratorio di progetto ha il compito di coordinare le varie classi e gli altri laboratori nella creazione di un evento culturale finale costituito dalla giornata conclusiva. Vi partecipa almeno uno studente di ogni classe che svolge una funzione di collegamento e coordinamento tra il laboratorio e i propri compagni in classe, tra linee di indirizzo generale ed elaborazioni particolari.
Giornata conclusiva
Immaginavamo un evento culturale collettivo, con tutte le classi al Teatro Palamostre di Udine: un convegno, letture, brevi frammenti recitati, una mostra, una festa. La pandemia, con la seconda e soprattutto la terza ondata ci ha costretto ad una scelta diversa: un webinar registrato in video. Non abbiamo rinunciato anche se dell’evento è rimasta un’intenzione. La pandemia ha avuto il solo potere di dare più valore all’esperienza.
LA VITA AL TEMPO DEL COVID è stato trasmesso in streaming il 18 giugno alle ore 21. Il video non è più disponibile
Materiali del progetto
Laboratorio di fotografia
A volte è necessario fare un passo indietro per comprendere con occhi nuovi ciò che ci circonda. Mai come in questo periodo ci siamo dovuti fermare.
Siamo diventati gli spettatori della nostra vita e l’abbiamo vista attraverso un riflesso. Ho voluto trasportare questa sensazione attraverso le mie foto.
C’è un mondo fuori che comunque va avanti, il tempo non si ferma, la natura si trasforma…
…e noi rimaniamo distanti oggi, per viverlo assieme domani.
Ho scelto queste fotografie per esprimere lo stato d’animo che ha predominato nel mio lockdown, cioè un forte senso di smarrimento e disorientamento nel mare delle mie riflessioni,
oscillando fra risolutezza e accettazione e un assoluto sconforto e disinteresse.
Quel lontano marzo 2020…, da quel mese sembra che il tempo si sia fermato, che tutti i giorni che passano siano uguali e che non si riesca più a vedere il mondo come prima. Il Covid ci ha letteralmente stravolto la vita, vorrei non aver mai dato per scontato nulla, ma ora uno spiraglio di luce in fondo al tunnel sembra farsi sempre più nitido, passerà e la vita ci sembrerà più bella di prima.
Non possiamo raggiungerci ma possiamo amare per sperare di poterci rincontrare là dove tutto sembra unirsi, con il desiderio di riavvolgere il nastro e ricongiungerci con le vite serene e spensierate che ognuno di noi aveva prima di tutto questo.
Quello che ci arricchisce maggiormente, la conoscenza ed il sapere, ci ha accompagnato ed aiutato in questo periodo così difficile, sembrato eterno.
Abbiamo capito però che il tempo è un dono e che abbiamo bisogno di sentirci vivi.
E noi ora più che mai vogliamo tornare a vivere!
Nelle fotografie sono espressi il distanziamento e la chiusura attraverso le sensazioni di solitudine, isolamento, incertezza e preoccupazione.
Il Covid-19 attraverso il distanziamento ci ha insegnato quanto siano importanti e belle le cose che prima davamo per scontato: come il relazionarsi con altri individui e la libertà.
Queste foto raccontano attraverso oggetti di uso comune il mio riscoprire la mia casa durante la quarantena.
Queste immagini raccontano il mio quotidiano attraverso oggetti e miei amici.
Con un gioco di aperture e chiusure durante le restrizioni e di come è cambiato l’ambiente che mi circonda.
Laboratorio di progetto
Liceo Scientifico G. Marinelli – Udine
“La peste”, di Albert Camus – a cura di Daniela Tipa
La peste di Albert Camus del 1947 è ambientato in Algeria, ad Orano – una città immaginaria – negli anni ‘40. In questo libro possiamo vedere come il male, la peste non venga mai debellata del tutto, ma resti latente in attesa dell’ambiente propizio a una nuova esplosione. Bernard Rieux, medico francese protagonista della storia, un giorno di primavera trova un topo morto sulla soglia di casa, e nei giorni seguenti sempre di più fino ad arrivare a seimila ratti al giorno morti. È così che la peste di avvicina alla città e piano piano si diffonde come il terrore e la paura. Rieux capisce che tutti stanno correndo un gravissimo pericolo quando il portinaio del suo stabile si ammala così gravemente che nessuna cura pare avere successo, e dopo di lui, sempre più persone cominciano a presentare gli stessi sintomi: Rieux e il più anziano collega Castel capiscono che si tratta di peste. La città di Orano viene dunque messa in quarantena. La città quindi è bloccata, ma al suo interno la vita continua a scorrere con le sue quotidianità e le sue contraddizioni: c’è chi lucra sulla mancanza di viveri, chi scrive un libro senza riuscire ad andare oltre la prima frase, chi è convinto che la peste sia una punizione divina, chi si lascia cullare dall’oblio garantito dall’alcol e dal cibo e chi cerca in tutti i modi di lasciare la città. Gli abitanti di Orano continuano a morire e non c’è neanche più posto per le fosse comuni. L’anziano Castel ha prodotto un nuovo siero che però non produce gli effetti desiderati. Quando anche un impiegato di Rieux si ammala, ormai disperato sperimenta nuovamente su di lui il siero di Castel: l’impiegato guarisce sorprendentemente. L’epidemia comincia poco a poco a scemare e a febbraio finalmente la quarantena viene revocata.
La quarantena dunque, non è una condizione nata nell’ultimo anno, ma esisteva già e moltissime altre città e popolazioni ne hanno provato gli effetti e i dolori causati dall’”internamento forzato”. Sono tutte sensazioni e azioni che abbiamo a malincuore provato e svolto anche noi, segno che l’uomo nel corso degli anni e dei secoli in fin dei conti non cambia, le emozioni che ritroviamo sono sempre le stesse, strazianti: la paura della morte, le difese della negazione davanti ad un nemico invisibile e sconosciuto per il quale abbiamo riscoperto la nostra fragilità. Come i personaggi del libro di Camus ognuno di noi ha reagito alla pandemia attraverso le le proprie paure, i propri fantasmi, le proprie credenze e risorse. Come si esce dal tunnel? Nel libro si sperimenta un siero su un paziente che porta all’uscita dall’epidemia e al ritorno graduale ad una vita normale. La realtà di oggi non è troppo lontana dalla letteratura: anche noi abbiamo trovato una cura – i vaccini – grazie alla collaborazione di scienziati e studiosi di tutto il mondo uniti in uno sforzo comune. Uno sforzo straordinario, necessario per ritornare alla vita normale, una vita che forse non riavremo più indietro per come l’abbiamo conosciuta. Come gli anni che abbiamo perso.
“L’amore ai tempi del colera”, di Gabriel García Márquez – a cura di Alice Righini
La storia inizia negli ultimi anni dell’Ottocento a Cartagena, città magica e sensuale e ripercorre cinquant’anni di vita del protagonista, un uomo che aspetta per mezzo secolo l’unica donna che ha amato. Tempo e luogo in cui c’erano dei confini molto rigidi tra le classi dominanti e quelle inferiori. Florentino Ariza è un impiegato telegrafista, un uomo malinconico e posato appassionato di poesia. È innamorato di Fermina Daza, ma il padre di lei non approva l’unione e la giovane viene data in sposa a Juvenal Urbino, il ricco medico della città. Il matrimonio di Fermina e Juvenal, partito senza amore, diventerà con il tempo e le avversità un rapporto solido e felice. Florentino si butterà a capofitto nel lavoro per poter essere degno dell’amore di Fermina e inizierà una brillante carriera all’interno dell’azienda dello zio, la Compagnia Fluviale dei Caraibi. Nonostante la folla di amanti che accumulerà negli anni, Florentino si sentirà legato solo a Fermina. E aspetterà decenni per vedere realizzato il suo amore: alla morte di Juvenal, Florentino dichiarerà di nuovo a Fermina il suo amore e lei, dopo tanti anni di indifferenza, accetterà le sua attenzioni. Insieme faranno un viaggio in uno dei battelli della Compagnia Fluviale di Florentino.
“Gli bastò un interrogatorio insidioso (…) per comprovare una volta di più che i sintomi dell’amore sono gli stessi del colera.” E’ così che nel romanzo viene presentato il sentimento d’amore: passionale, represso, distante, che brucia, consuma, ammala. E’ una storia di attesa, che ci siamo ritrovati a vivere sulla nostra pelle, nella quale abbiamo potuto immedesimarci, soprattutto durante la prima fase della pandemia da Coronavirus. Il Covid, infatti, tra le tante cose ci ha privato degli ingredienti che stanno alla base dell’amore, contatto, condivisione, baci, abbracci, intimità. In questo periodo i gesti hanno dovuto lasciare spazio alle parole, ai messaggi: sentimenti, confessioni, emozioni correvano sul filo del telefono, così come le lettere e le poesie di Florentino, giungevano nelle mani di Fermina grazie alla complicità dei telegrafisti, consentendo ai due amanti di rimanere in contatto. Alla fine del romanzo i due protagonisti, anziani, rivivono il loro amore dopo tanti anni, rifugiandosi l’uno nell’altra, al sicuro dal Colera, che nel frattempo infestava i villaggi. Allo stesso modo anche noi abbiamo potuto vivere un ricongiungimento con la nostra libertà, le relazioni, le amicizie, i familiari, potendoci lasciare alle spalle dei mesi bui, vuoti, mesi di divieti che hanno scavato nelle nostre fragilità, durante i quali abbiamo imparato di aver bisogno di amore.
“Lettera all’Italia”, di Jhumpa Lahiri – a cura di Sofia Nassutti
Abbiamo deciso di comporre un pensiero che non si riferisse troppo alla trama di “Andrà tutto bene” (2020) ma più a quello che abbiamo provato, ispirandoci anche ad una delle storie per noi più significative del libro, ovvero “Lettera all’Italia”. La storia in questione è di Jhumpa Lahiri, scrittrice statunitense che vive e insegna a Princeton trascorrendo lunghi periodi a Roma. L’autrice, costretta a rimanere negli Stati Uniti a causa del Coronavirus, ha deciso di scrivere una lettera all’Italia, spinta dalla nostalgia di tornare alla capitale. La sua profonda ammirazione per il comportamento della nostra nazione durante l’emergenza ci ha colpito e portato a riflettere.
Marzo 2020.
Il nemico invisibile si insinua e si espande.
Cara Italia, anche in ginocchio, piegata dal più crudele isolamento, mi proteggi e mi accompagni, porgendomi la mano con un sorriso. Quando mancavano i mezzi, quando necessitavi di ossigeno per respirare, quando lo smarrimento pervadeva le case, hai trovato la forza di opporti, di ricercare un equilibrio. Non avrò mai più paura di starti vicino, ma solo di perderti. Hai il mio affetto e la mia solidarietà, mentre mi regali la forza di resistere e combattere.
Cara Italia, quando dai tuoi balconi si innalzava un canto, di speranza di lotta e di incoraggiamento, ci insegnavi la perseveranza. E dai tetti si propagava l’eco degli applausi, di riconoscenza per chi in prima linea rischiava la vita per difenderti, per difenderci. Sei stata maestra di resilienza, quando di certo c’era solo l’incertezza.
Cara Italia, quante perdite hai subito in questo duro anno. Nelle terapie intensive una dopo l’altra le vite si spegnevano, lasciando un vuoto incolmabile e una pesantezza nei cuori di coloro che le avevano amate. Hai attraversato un mare di dolore e paura, e hai mantenuto la tua rotta cercando di orientarti verso la luce di una nuova speranza. Non dimenticheremo mai i tuoi sacrifici, e ti ringraziamo per ciò che ci hai donato.
Cari Italiani, adesso ci unisce l’esperienza della battaglia affrontata insieme. Abbiamo imparato a rivolgerci solidarietà e compassione reciproche, non dimentichiamo mai questa lezione di vita, e non perdiamo mai questi valori che ci hanno unito mentre brancolavamo nel buio.
Nonostante la solitudine. Nonostante lo smarrimento. Nonostante tutto. Insieme.
Video di Letizia Losco
Fotografie di Sofia Candotti, Federico Casini, Sebastiano Vindigni
Musica di Riccardo Tomada
Voci di Emma Bertolini, Isabella Bigioni, Simone Carlevaris, Sara Felini, Daniela Kanapari, Marianna Macorig, Eleonora Marcuzzi, Michelangelo Marku, Andrea Ronco, Veronica Spizzo, Isabel Trevisan, Sebastiano Vindigni, Alessandro Zuliani
Presentazione a cura di Eleonora Berini, Alice Biasutti, Lavinia Burelli, Giulia Castagnaviz, Laura Cerutti, Lisa Nascimben, Alessia Picco
Il Covid è ormai diventato parte della quotidianità e per capire come potrebbe essere il nostro futuro è necessario sapere cosa ha reso possibile questa pandemia.
Stiamo vivendo una crisi che è iniziata molto prima del Covid e che riguarda l’economia, la politica, l’ambiente e la sanità senza distinzioni.
Come ormai sappiamo, insieme al contatto diretto con gli animali selvatici, la distruzione degli ecosistemi naturali, tramite deforestazione e urbanizzazione, facilita la diffusione di malattie poiché porta i microbi alla zoonosi, ovvero al passaggio di specie, per garantirsi la sopravvivenza.
Da questo, deduciamo che la crisi ambientale insieme all’inquinamento sia in effetti una delle cause del Covid.
Eravamo arrivati al limite e forse lo avevamo anche superato. Un limite in termini di “sostenibilità”, verso l’ambiente, che una volta sentivamo parte della nostra vita e dal quale ci stiamo sempre più distanziando.
A sostegno di questa tesi una citazione di Spillover (scritto nel 2012) di David Quammen:
Una soluzione alle pandemie? Dobbiamo ridurre velocemente il grado delle nostre alterazioni dell’ambiente, e ridimensionare gradualmente la dimensione della nostra popolazione e la nostra domanda di risorse.
Originato da una possibile causa ambientale, il virus ha iniziato a diffondersi incontrollabilmente anche per effetto della globalizzazione. Paradossalmente i motivi che hanno determinato i nostri enormi progressi sono stati anche quelli che ne stanno provocando la rovina.
Il mondo era predisposto alla diffusione di una pandemia, siamo diventati dipendenti dai mezzi della globalizzazione tanto che, una volta iniziato il contagio, è stato impossibile arrestarli.
Questo fenomeno ha inciso anche sul sistema economico: nonostante la diffusione del coronavirus abbia avuto enormi impatti in questo settore, non si può dire che essa abbia causato l’attuale crisi, ma solamente che abbia contribuito a renderla più ampia e profonda.
Infatti già prima dell’arrivo del virus alcuni settori dell’economia erano in decrescita; poiché il progresso scientifico e tecnologico degli ultimi decenni, aveva cambiato la mentalità della popolazione e di conseguenza determinato nuovi bisogni e nuovi stili di vita.
Considerati i progressi fatti negli ultimi decenni in ambito medico non ci si sarebbe aspettati di arrivare così vicini al crollo dei servizi sanitari. La pandemia ha però messo a nudo debolezze che già esistevano: in quanto, anche se in modo non evidente era già presente una profonda crisi sanitaria (in alcuni stati maggiormente che in altri).
I fondi destinati alla sanità pubblica erano poco più che sufficienti e diminuiti progressivamente negli ultimi anni.
L’Italia li ha distribuiti guardando più all’efficienza economica che alla soluzione delle problematiche sanitarie trascurando gli effetti che questa scelta avrebbe poi avuto in termini di costi sociali (qualità della vita).
Le epidemie sono eventi che si ripetono e la sanità avrebbe dovuto essere pronta.
Insomma, i presupposti per la nascita di una pandemia c’erano già da molti anni, infatti come ha detto Stephen Hawking:
La vita sulla Terra è a crescente rischio di essere spazzata via da una catastrofe, come ad esempio una improvvisa guerra nucleare globale, un virus geneticamente modificato o altri pericoli a cui non abbiamo ancora pensato.
Da tempi immemori le epidemie vengono raccontate nelle letterature, dipinte nei quadri e, magari, perfino gli uomini primitivi ne raffiguravano gli effetti sulle pareti delle caverne.
L’uomo da sempre cerca conforto negli altri individui: nei periodi di peste riunirsi era considerata l’unica salvezza e forse, anche adesso, si ritiene sia l’unico modo per combattere la solitudine. Tuttavia, è soprattutto questo atteggiamento che alimenta, e continuerà ad alimentare in futuro, le epidemie attraverso il contagio.
Dovremmo riuscire a mettere al primo posto l’interesse collettivo, piuttosto che quello individuale, e a comprendere il valore della collaborazione così da sfruttarlo anche nella nostra quotidianità.
L’obiettivo di molti autori dei più celebri scritti letterari inerenti a tali tragedie è dunque spesso quello di formulare una vera e propria accusa nei confronti del genere umano: nessuna catastrofe sarà mai in grado di dissuadere l’uomo dalla necessità di sopraffare gli altri al fine di arricchirsi e raggiungere i propri scopi.
La descrizione di ogni male corporeo, legato alle crisi epidemiche più violente che hanno segnato la storia, non è altro che una metafora attraverso la quale si delinea una vera e propria denuncia verso coloro che sono ritenuti i veri malati e contagiati: la società ed il mondo intero.
Le crisi però non hanno solo effetti negativi: sono sempre un punto di ripartenza per i successivi periodi di prosperità. Permettono di riflettere sul proprio stile di vita così da comprendere gli errori del passato affinché eventi del genere non si verifichino nuovamente.
Dovremmo pertanto essere in grado di cogliere questa crisi come un’opportunità per cambiare direzione, come sostiene lo psicoanalista Massimo Recalcati:
Bisogna essere audaci, non solo prudenti. Audaci nell’immaginare un mondo nuovo. Terribile sarebbe non trarre nessun insegnamento da quello che è accaduto. Bisogna ricominciare ma in un altro modo. Insomma bisognerebbe immaginare l’inimmaginabile, rendere l’impossibile possibile… Dobbiamo ripartire ma non come se nulla fosse successo.
Testi scritti da Sofia Bianchi, Alice Biasutti, Lavinia Burelli, Sofia Del Ponte, Maria Medic e letti da Maria Medic
Poesie lette da Giacomo Merluzzi, Allegra Vernoni, Martina De Michele
Musiche di Johann Sebastian Bach, eseguite al pianoforte da Sofia del Ponte
(Fai partire le tracce audio per ascoltare l’intermezzo musicale)
Ripensando alla prima quarantena non saprei dire come passassi le lunghe giornate chiusa in casa, ma mi ricordo bene le videochiamate che facevo la sera con dieci miei amici. Ci tenevamo compagnia raccontandoci delle storielle a vicenda, per distrarci da tutta la situazione difficile in cui eravamo e per cercare di alleggerire un po’ gli animi: ci raccontavamo storie dell’estate, ripensavamo alle feste, alle nostre passioni e tutto quello che non potevamo fare.
Scuola di danza, di Arianna Milan
La nostalgia avanza
ora che mi è impossibile
varcare quella soglia
e lasciar fuori il mondo,
immergermi in quell’universo
fatto di luce, specchi e musica
Far scivolare via le preoccupazioni
con le note del pianoforte
che riempiono la sala e il cuore,
non pensare più a nulla
se non a danzare
liberandosi dalle catene
e rilasciare i sentimenti
dalla gabbia in cui sono rinchiusi.
E menomale che per noi giovani sono stati mesi di vacanza… che ci vuole a stare a casa a fare la pizza no?
Anche se non sembra, ci pesa molto accendere la televisione e vedere i numeri dei bollettini, pesa avere la consapevolezza di star perdendo gli anni migliori della nostra giovinezza che nessuno mai potrà ridarci indietro.
Anzi, non è solo un peso, è anche una paura. Abbiamo paura di andare dai nonni a pranzo perché potremmo metterli in pericolo: avvicinarci troppo ai nostri cari è diventato uno dei rischi più grandi.
Per mesi il passaggio da zona rossa a zona arancione è stato il meglio che potesse accaderci: rivogliamo la vera normalità.
Poesia, di Sofia Del Ponte
Ho paura
di non vedere la luce
in fondo a questo tunnel di malinconia, un vortice di solitudine
mi priva del soffio vitale.
Il passato ormai pare utopia,
il mondo teatro di disgrazie,
le giornate storie senza finale
e l’attesa è buia
mi consuma.
Sarebbe bello tornare alle nostre abitudini: poterci toccare, riabbracciarci, e lo dice una che non è mai stata una grande amante del contatto fisico.
Per non parlare delle mascherine, ovunque si vada è impossibile vedere anche solo un sorriso. Io ormai neanche mi rendo conto di star sorridendo alle persone dietro la mascherina e mi offendo pure quando non vengo ricambiata!
Poi le nostre mascherine non si abbineranno benissimo agli outfit ma pensate ai poveri medici della peste con le loro maschere a becco, quelle sì che erano terribili.
A proposito… vi rendete conto che non siamo nemmeno i primi a ritrovarsi in una situazione del genere? Perché le epidemie e le pandemie non sono una cosa nuova, arrivano, scompaiono e ritornano: fanno quello che vogliono ogni secolo. Almeno il nostro virus non viene chiamato mortifera pestilenza, come chiamava la peste quel toscano 700 anni fa. Perché lì la situazione era proprio drammatica. Uscivi e ritrovavi cadaveri davanti a casa, gettavano per strada gli stracci dei morti, e si schifavano a vicenda addirittura tra parenti e amici.
Ecco, in periodi di questo tipo di persone bizzarre se ne sono viste tante, siamo passati dai flagellanti medievali ai negazionisti e complottisti che in questi mesi ci hanno intrattenuto con le loro teorie, che dire… certe persone hanno sempre molta fantasia.
Non dimentichiamoci però della fortuna che abbiamo avuto nell’avere l’incondizionata disponibilità di medici, di infermieri, di volontari e di tutte le persone che si sono fatte avanti per aiutare. Tutti loro finalmente ricevono il riconoscimento che meritavano e meritano tutt’ora. Ecco, una cosa che questo virus ci ha insegnato è proprio la gratitudine.
Poter spaziare, di Giorgia Pantanali
Poter spaziare
da raggi attraverso le tende
da fronde sbiadite qui fuori
da spifferi giunti per caso
da un uscio scordato, abbandonato
com’è il cuore all’ombra di un vento
che agita rami di liberi alberi
lungo una strada visibile appena
sabbia leggera compagna di un’acqua
specchio di luce e di vita piena.
Tesi: Il Covid ha cambiato la nostra visione del futuro – a cura di Benedetta Casini, Mattia Dominutti, Grace Riccardi
Argomentazione:
Nella videoconferenza di Massimo Recalcati si è parlato dei vari insegnamenti che ci ha dato il Covid. Quello che ci ha fatto riflettere di più è stato:
“nella malattia c’è già la guarigione”.
Noi abbiamo voluto interpretare questa guarigione non tanto come la nostra guarigione, ma come quella della Terra.
Durante la prima ondata, infatti, si è assistito ad un notevole incremento di qualità dell’aria causato dalla riduzione delle attività inquinanti dell’uomo. Essendosi ritrovato confinato in casa, infatti, l’uomo ha dovuto interrompere tutte le sue attività lavorative nella sede di lavoro; ciò ha portato ad una notevole riduzione degli spostamenti, sia in macchina per viaggi più brevi, sia in aereo o in treno per viaggi più lunghi, e anche all’interruzione delle attività industriali.
Con l’assenza dell’uomo, inoltre, gli animali si sono “presi più spazio” e hanno iniziato a esplorare le città e i porti. Ne è un esempio quello avvenuto nella nostra regione nel mese di marzo dello scorso anno, quando sono stati avvistati dei delfini al largo di Trieste.
Un episodio simile a quello appena citato viene narrato nel libro “L’assemblea degli animali” di Filelfo, nel quale molti animali, come il cervo e l’anatra, occupano i luoghi una volta frequentati dagli uomini.
“Era stata una gara, in quei due mesi, fra tutti loro. Ma gli attraversamenti delle strisce pedonali erano oramai consolidato appannaggio dei paperi – una concreta e realizzata paperopoli – così come quelli delle strade statali e provinciali lo erano degli orsi – o per meglio dire delle orse, poiché in quella stagione era tutta femminile l’espansione territoriale, e gli esemplari adulti erano sempre seguiti dalle loro nidiate, o cucciolate, che per la prima volta da secoli addestravano il passo sul manto stradale umano, ai loro genitori e nonni precluso.”
Inoltre, in questo libro viene anche ripreso il tema della guarigione del pianeta e della natura; al suo interno, infatti, si racconta di un’assemblea, convocata dagli animali di tutta la Terra per discutere delle ignobili azioni dell’uomo che hanno portato al cambiamento climatico.
Tra gli avvenimenti più recenti che hanno fatto discutere di più gli animali ci sono gli incendi in Australia, che, oltre a distruggere molti ettari di foreste, hanno anche privato molti animali del loro habitat naturale.
Dopo un acceso dibattito e numerose testimonianze, gli animali giungono alla conclusione che l’uomo debba essere punito; anche questa volta, la punizione verrà mandata all’uomo sotto forma di epidemia, che in questo caso è rappresentata dal Covid.
“Poi, finalmente, parlò.- La terra era buia. Era notte sempre. Il fumo soffocava. Gli alberi bruciavano. Non potevamo arrampicarci. I miei amici sono andati a fuoco con le foglie. L’amato odore di eucalipto misto a quello di carne bruciata. Non mangerò mai più l’eucalipto-.”
Per raccontare questa storia, l’autore ha deciso di utilizzare come genere di scrittura la favola, in quanto voleva rendere disponibile ad un pubblico più ampio, che comprendesse sia bambini che adulti, l’importante messaggio del libro, un po’ come “Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry.
Nel libro di Filelfo, il messaggio è quello di essere più consapevoli delle nostre azioni e delle conseguenze che hanno sul benessere del pianeta, fondamentale per la sopravvivenza dell’uomo. La morale della favola è quindi che gli uomini devono imparare dai propri errori per non commetterli più e, se ciò accade, devono saper porre rimedio ad essi.
Con queste riflessioni, possiamo quindi dire che la vera protagonista del racconto è la Terra, che ha come aiutanti, ma anche antagonisti gli esseri umani, che di conseguenza non sono i suoi padroni.
Come abbiamo visto precedentemente, il libro di Filelfo tratta diverse tematiche, tra cui quella del Covid.
Anche in questo caso, quindi, si può attribuire all’epidemia il significato metaforico di “peste”, cioè di punizione contro l’umanità, come abbiamo visto nel corso della videoconferenza tenuta da Gianni Cianchi e in quella di Angelo Floramo. In questo caso, contrariamente alle altre opere del passato, la peste non è più vista come una punizione divina, bensì come una punizione della natura.
Con questo libro, dunque, la peste dell’antichità può essere ricondotta all’attualità mediante una relazione con il Covid.
Conclusioni e propositi:
Per concludere, dopo tutte queste riflessioni, dovremmo tutti chiederci se siamo disposti a cambiare e a rinunciare a qualcosa per salvare il pianeta, o se ripercorreremo le orme delle generazioni precedenti che ci hanno portato a dover affrontare gravi problemi per la sopravvivenza nostra e della nostra Terra.
Con frammenti da “L’assemblea degli animali” di Filelfo, “Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry.
Testi e poesie scritti e letti da Greta Zuliani Lavia, Elena Cecotti, Sara Muneretto, Marco Berlasso, Filippo Codutti, Antonio Tramacere, Marta Marino
(Fai partire la traccia audio per ascoltare l’accompagnamento musicale)
E’ da tempo che tutti noi ci stiamo abituando a vivere in un situazione di incertezza: tenere sotto controllo le aperture e le chiusure alternate, come quelle delle scuole o dei centri sportivi, risulta sempre più complicato. È simpatico, ma anche triste, come i bambini oggi imparino a suddividere l’Italia non in base alla conformazione del territorio, ma in base al colore attribuito alla propria regione.
(Scritto da Greta Zuliani Lavia ed Elena Cecotti, letto da Sara Muneretto)
Un anno fa la nostra quotidianità ci sembrava monotona, oggi invece faremmo di tutto pur di riaverla.
(Scritto da Greta Zuliani Lavia ed Elena Cecotti, letto da Antonio Tramacere)
Quel memorabile balcone
ricorda a me momenti quasi ormai di stupore:
i bambini si rincorrono leggeri,
senza farsi bloccare da inutili pensieri;
tra loro danzano i genitori,
ripensando lieti ai loro anni migliori;
si stringono gli anziani,
pensando combattuti al loro incerto domani;
i ragazzi incauti si sfiorano,
e le esperienze passate riaffiorano.
Da là in alto, sopra alla piazza affollata,
vedo gente allegra e spensierata,
ignara che la situazione da lì a poco sarebbe cambiata.
(Scritto da Greta Zuliani Lavia, letto da Marta Marino)
Da sempre i viaggi recano gioia alle persone, ma ora l’unica cosa che provocano è una profonda nostalgia.
(Scritto da Greta Zuliani Lavia ed Elena Cecotti, letto da Marco Berlasso)
Vorrei essere di nuovo lì,
se chiudo gli occhi riesco
a sentire le macchine,
se guardo in giro le vedo pure,
insieme a persone sconosciute.
Vorrei essere di nuovo lì,
tra le persone e gli edifici
tra strade, parchi e bambini,
vorrei essere di nuovo lì,
ma sono a casa.
(Scritto e letto da Sara Muneretto)
È nella natura di noi giovani restare sempre insieme, ma ora abbiamo imparato a stare distanti almeno un metro, come dice Mariangela Gualtieri, nella sua bella poesia.
(Greta Zuliani Lavia ed Elena Cecotti, letto da Antonio Tramacere)
La senti l’aria fresca al mattino?
Dove vorresti essere se non qui?
In questa circostanza umida
che ti dà la scossa alle ore di sonno saltate
perché la notte è giovane, e noi come lei.
Hai mai visto un paesaggio così bello
e dei ragazzi così ingenui
che pensano di vivere al meglio la vita
o forse solo si accontentano;
queste montagne non sarebbero così belle se non fossimo insieme.
Quando non saremo più qui
cosa resterà tra di noi?
Forse ci saluteremo per strada
o magari ci rivedremo tra un anno
come se non fosse successo nulla
Non dimentichiamoci di quello che siamo stati
delle sciocchezze e delle risate
Possiamo anche essere stati soltanto un attimo
come un lampo in un temporale
ma siamo comunque stati un istante di luce nel buio.
(Scritto e letto da Marco Berlasso)
Il Covid ci ha completamente cambiati: riprendere la quotidianità sarà difficile, ma con il passare del tempo potremo ricominciare a vivere. Non possiamo tornare indietro, ma possiamo guardare in avanti, sfruttare ciò che abbiamo imparato, come a dare valore alle piccole cose e a tutto ciò che ci ha migliorati in questo lungo periodo, come le relazioni interpersonali , la solidarietà, il buon senso comune, per capire che questo cambiamento, in fondo, non è stato per tutti i sensi negativo.
(Scritto da Greta Zuliani Lavia ed Elena Cecotti, letto da Antonio Tramacere)
È ormai impresso in noi,
un marchio nero e indelebile,
ci ha cambiati e ci ha colpiti con una precisione che nessuno prima aveva avuto.
Spetta a noi sfruttare l’occasione:
osserviamo la fenice, dalle ceneri ricominciamo
con una nuova consapevolezza.
Ché quei morti non siano vani,
Onoriamoli con caparbietà e apertura mentale.
Loro rivolgiamole all’ignoto,
ché non ci colga più indifesi.
(Scritto da Filippo Codutti, letto da Marta Marino)
Liceo Scientifico N. Copernico – Udine
“I Promessi Sposi”, di Alessandro Manzoni – a cura di Simone Ceschia
In quest’ultimo anno siamo stati afflitti da una grande minaccia chiamata Covid-19 che ci ha trasformato e stravolto completamente.
Il genere umano non è nuovo a confrontarsi con grandi epidemie. Esempi di epidemie passate ce ne sono; uno su tutti la peste.
Tale epidemia è citata in molte opere di scrittori antichi. La cosa che balza immediatamente all’occhio è la presenza di numerosi comportamenti analoghi a quelli odierni di fronte al contagio.
Un’opera nella quale si cita la peste è quella dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. L’autore descrive la peste che fra il 1629 e 1630 si diffuse in gran parte della penisola italiana. Nei Promessi sposi il XXXI e il XXXII capitolo sono dedicati alla peste. Essi a causa della loro lunghezza sono stati soggetti a critiche anche se risultano essere molto importanti per l’economia dell’intero romanzo.
Tra le varie analogie riscontrate vi è uno sminuimento del contagio al quale poi, quando la situazione si è fatta più preoccupante, si è susseguita la ricerca di colui che veniva identificato come il paziente zero, ossia colui dal quale è scaturita la diffusione del contagio.
Si colloca in questo contesto un tentativo di illusione generale da parte della società dell’epoca adottato per nascondere provvedimenti inefficaci da parte delle varie istituzioni.
Nell’opera in questione la peste viene descritta in questo modo:
Sul finire del mese di marzo […] in ogni quartiere della città cominciarono a farsi frequenti le malattie, le morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine […].
I medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ancora confessare ciò che avevano deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenziali: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto.
Oggi come allora il morbo non risparmia nessuno e non colpisce in base alla posizione sociale o sulla base delle possibilità economiche. Nel romanzo stesso ad ammalarsi e a morire sono soggetti molto diversi tra loro: don Rodrigo, Padre Cristoforo, il Griso e altri ancora.
Tuttavia essa non è totalmente letale, vi è la presenza anche di persone che sopravvivono al contagio come i monatti e soprattutto Renzo. Lo stesso Renzo fatica a riconoscere una Milano in balia della peste definendola in questo modo:
Quale città! e cos’era mai al paragone, quello che era stata l’anno avanti, per cagione della fame!
Tuttavia sarebbe sbagliato considerare le circostanze di quel periodo analoghe a quelle odierne. Vi è la presenza anche di una serie di differenze come possono essere una maggiore competenza in campo medico e tecniche curative maggiormente efficaci ai giorni nostri e un comportamento nella maggior parte dei casi più responsabile.
“Decameron”, di Giovanni Boccaccio – a cura di Adele Iacuzzi
Un’altra opera nella quale viene trattato il tema della peste e con la quale è possibile confrontare l’odierna epidemia è il Decameron di Giovanni Boccaccio.
Giovanni Boccaccio visse negli anni della “peste nera” e nonostante oggi si viva in una realtà completamente diversa da quella del poeta vi sono alcuni comportamenti di fronte al contagio che persistono.
Anche nel Decameron vi è la presenza di una quarantena, in questo caso volontaria e non obbligatoria come quella odierna, tuttavia entrambe portano ad un isolamento dalla società.
Esse però non possono essere definite simili in tutto e per tutto in quanto vengono vissute in modo diverso.
Nel Decameron i giovani, trascorrono le loro giornate narrandosi novelle mentre oggi la quarantena è vissuta in maniera totalmente diversa; noi trascorriamo le nostre giornate sui social in contatto con chi si trova lontano da noi ma perdiamo il contatto con coloro che ci sono vicini come i nostri familiari.
Occorre tenere in considerazione anche l’importanza della quarantena in quanto essa limita la diffusione del contagio, oggi come allora.
Proprio oggi come allora vi è anche chi è prudente come i giovani del contagio e chi prende la malattia con superficialità.
Si deve anche tenere in considerazione l’importanza delle nuove tecnologie in quanto esse alleviano, almeno in parte, quella solitudine che questi momenti creano e fanno sì che si possa anche dare un ultimo saluto a coloro che stanno per abbandonare questo mondo senza il rischio di essere contagiati.
Ormai sembra che pian piano si stia riassaporando un po’ di normalità, tuttavia, è da tenere in considerazione che persiste un forte clima di diffidenza verso il prossimo.
Estratti da “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni, con Simone Ceschia
La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia.
Cominciarono prima nel borgo di porta Orientale, poi in ogni quartiere, a farsi frequenti le malattie, le morti con accedenti strani, di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni, morti per lo più celeri, violente, repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia.
Il tribunale della sanità fece segregare e sequestrare in casa la di lui famiglia; i suoi vestiti e il letto in cui era stato allo spedale, furon bruciati.
Due serventi che l’avevano avuto in cura, e un buon frate che l’aveva assistito, caddero anch’essi ammalati in pochi giorni, tutt’e tre di peste.
Il dubbio che in quel luogo s’era avuto, fin da principio, della natura del male, e le cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non vi si propagasse di più.
Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un’intera famiglia. Nell’ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, i cadaveri di quella famiglia furono, d’ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza.
Un grido di ribrezzo, di terrore, s’alzava per tutto dove passava il carro; un lungo mormorìo regnava dove era passato; un altro mormorìo lo precorreva.
La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da sé, ogni giorno di più; e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla.
E’ stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più.
Estratti dal “Decameron” di G. Boccaccio, con Adele Iacuzzi
E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate.
E più avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l’usare cogli infermi dava a’sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator transportare.
Nascevano nel cominciamento d’essa a’maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun’altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli.
E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse.
E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno.
Nacquero diverse paure e immaginazioni in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e così facendo, si credeva ciascuno medesimo salute acquistare.
Lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano.
Fotografie di Adele Iacuzzi
Epidemie e letteratura – scritto da Nur Noacco, letto da Nur Noacco e Matteo Bosco
La pandemia in cui l’Italia e tutto il mondo si è trovato dai primi mesi del 2020 ha lasciato il segno nel bene e nel male. Dopo quest’anno passato tra vari lockdown, tra la paura di perdere le persone più care e di abbandonare le nostre routine quotidiane, riusciamo a rivederci e a reinterpretare le frasi di libri come “La peste” di Albert Camus, “Anna” di Niccolò Ammaniti, “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez e “Morte a Venezia” di Thomas Mann.
“Quando scoppia una guerra, la gente dice: ‘Non durerà, è cosa troppo stupida’. E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare.”
(La peste)
Nelle parole della “gente” ne La peste di Camus, si ritrova lo spirito di speranza che aveva attraversato gli animi nelle prime settimane dall’annuncio delle chiusure e delle restrizioni a inizio febbraio 2020. I genitori ancora si lamentavano del prolungamento delle vacanze di Carnevale e speravano al più presto di poter riaccompagnare i figli a scuola. Mi ricordo ancora mia madre che con fastidio si era lamentata della sospensione di un paio di settimane delle attività scolastiche. Eravamo tutti diventati come la “gente”, era una rassicurazione ripeterci “Non durerà, è cosa troppo stupida” e invece un anno è passato e come scriveva l’autore questo non ha impedito alla pandemia di durare, di infuriare nelle nostre città e sconvolgere la nostra vita da un giorno all’altro.
“Tutti gli esseri di questo pianeta, dalle lumache alle rondini, uomini compresi, devono vivere. Questo è il nostro compito, questo è stato scritto nella nostra carne. Bisogna andare avanti, senza guardarsi indietro, perché l’energia che ci pervade non possiamo controllarla, e anche disperati, menomati, ciechi continuiamo a nutrirci, a dormire, a nuotare contrastando il gorgo che ci tira giù.”
(Anna)
Anna non è altro che una tredicenne che è intrappolata nella Sicilia contaminata da un virus letale che sta decimando la popolazione adulta. Anche se lontanamente, Anna e i bambini che con lei resistono per sopravvivere può essere paragonata a diverse delle imprese che noi adolescenti abbiamo dovuto affrontare nell’ultimo anno. Ognuno di noi può ritrovarsi nella solitudine che abbiamo provato quando è stata introdotta la didattica a distanza o la solitudine che abbiamo affrontato per la perdita di parenti o amici a noi cari. Siamo stati parte di un esperimento che mai avremmo avuto il coraggio di affrontare volontariamente. La stessa solitudine e il silenzio ad essa collegato hanno anche dato spazio a disagio, insicurezze e paure, sia date dalla malattia stessa ma anche dal caos razionale ed emozionale interiore.
“La cosa più temibile della malattia dell’insonnia non era l’impossibilità di dormire, dato che il corpo non provava alcuna fatica, bensì la sua inesorabile evoluzione verso una manifestazione più critica: la perdita della memoria.”
(Cent’anni di solitudine)
La peste nel brano di Márquez è sia la malattia fisica, l’insonnia, che quella mentale che l’accompagna, la dimenticanza. Gli oggetti ricchi di parole diventano oggetti senza nome e pronti ad essere dimenticati, la quarantena da situazione anomala e di emergenza diventa normalità. Il romanzo di Márquez rimanda all’inquietudine della vita tra le mura di casa, dell’isolamento e della separatezza. La stessa quarantena è diventata come per i protagonisti del libro una condizione naturale con cui abbiamo dovuto da subito fare i conti.
“La visione della città colpita e trascurata, librantesi confusa nel suo spirito, accendeva in lui speranze inconcepibili, oltre la ragione e immensamente dolci.”
(Morte a Venezia)
La Venezia di Thomas Mann è uno degli esempi letterari delle miriadi di città infestate dai ratti della peste. Le città anche in questa pandemia sono diventate il simbolo più eloquente del paesaggio e della desolazione che il virus ha portato con sé. Ma se da un lato le città “umane” sono sprofondate in un lungo e profondo sonno, dall’altro la natura era già pronta a riconquistare i suoi spazi. Rumore e inquinamento hanno lasciato il posto alla presenza di animali che camminavano tra le strade che pre-pandemia avevano conosciuto solo automobili e biciclette.
Quello che è successo con la pandemia ci ha dato l’opportunità di vedere che cosa accadrebbe se l’umanità scomparisse e ci ha dato la possibilità di evitare l’errore che condannerebbe l’ultima occasione per una coabitazione tra uomo e natura.
Estratto da Un abbraccio a un metro di distanza – scritto da Pietro Faè, da un’idea di Pietro Faè e Nur Noacco
PERSONAGGI:
Marco
Lucia
Pietro
Nur
PROEMIO
SCENA 1
Fronte palco, sipario chiuso.
Marco e Lucia si siedono sul bordo del palcoscenico.
Lucia tiene in mano il cofanetto di un CD, Marco sfoglia un libro di poesie.
MARCO:
Peccato, peccato però…
LUCIA:
C’è questa frase bellissima cioè: “Quello che verrà dopo sarà raccontato dalla musica e dallo spettacolo”.
Buio.
Marco e Lucia escono di scena.
Pausa più lunga.
SI APRE IL SIPARIO.
Luce.
ATTO I
SCENA 1
Salotto della casa al fiume di Nur in disordine. Un baule da viaggio sporco per terra e altri oggetti. Confusione.
Nur entra assonnata e accende lo stereo.
SCENA 2
Pietro, con passi pesanti, entra assonnato.
PIETRO:
Sono le sette… Cosa stai facendo?
NUR (arrabbiata):
Mai più una cosa del genere.
SCENA 3
PIETRO:
Nuuur! Dai, spegni la musica che ho mal di testa…
NUR (sarcastica):
Sì, principessina.
SCENA 4
Pietro si ferma davanti al baule.
PIETRO:
Non mi hai mai detto cosa tieni in questo baule.
NUR:
Cose.
Pausa.
Pietro apre il baule “UN ABBRACCIO AD UN METRO DI DISTANZA”
PIETRO (nervoso):
Guarda, era il 21 marzo…, dopo tutta quella quarantena quando sono uscito.
NUR:
Che poi tu sei anche stato più sfigato.
I due ragazzi ridono e Pietro prende la chitarra.
Buio.
PIETRO (suonando):
“Brindiamo alle donne, brindiamo alla vita, brindiamo la notte finché non è finita, brindiamo a quel posto che ci ha fatti incontrare…” (canta “Daje con questa quarantena” di Pietro Faè)
La scena si fa in penombra, una luce concentrata su Nur, la segue.
Nur si alza e prende una tela dalla libreria.
NUR:
Su questa tela ci sono due persone. Si danno le spalle però si possono toccare quindi non c’è il distanziamento. Stanno insieme ma separati, non si guardano, potrebbero abbracciarsi, se solo lo volessero.
SCENA 6
Pietro seduto sul baule con la chitarra in mano e Nur seduta su una sedia.
NUR (arrabbiata):
Il dipartimento! Cinque giorni, cinque porca miseria.
PIETRO:
Comunque, sai una cosa bella? Oddio, bella; che fa sorridere.
NUR:
Spara.
Buio.
SCENA 7
Luce su Pietro, lo segue.
Pietro si porta sul proscenio.
PIETRO:
Ricordiamoci di quando le città erano silenziose. Ricordiamoci di quando camminando fuori dalla nostra scuola abbiamo amaramente sorriso.
Nur entra in scena.
Una luce su Nur e una luce su Pietro.
NUR:
Dobbiamo ricordare però l’isolamento.
Pausa.
Gente impazzita.
Buio.
SCENA 8
Pietro e Nur ritornano a sistemare il salotto e a parlottare tra di loro
PIETRO:
Siamo nella storia eh, eh be’, chissà se qualcuno ci scriverà una canzone sopra.
Buio.
SIPARIO
(Il copione integrale è disponibile nella sezione “Da consultare”)
I.S.I.S. B. Stringher – Udine
Dall’anno Mille ai nostri giorni, epidemie e pandemie – a cura della classe 3B Com dell’I.S.I.S. B. Stringher
Tutti gli alunni della classe 3B Com hanno elaborato dei lavori personali, questo che abbiamo scelto vuole rappresentarli.
La pandemia è il fenomeno di diffusione di una malattia infettiva che coinvolge un elevatissimo numero di persone.
Ogni pandemia ha cambiato il corso della storia: accompagnando o provocando guerre, migrazioni, crolli di imperi e di sistemi economici, poteri religiosi e persecuzioni ideologiche.
È come se da millenni fosse in corso una interminabile lotta fra noi umani e la natura.
La peste nera del XIV secolo cambia il mondo agricolo del Medioevo, cresce l’innovazione tecnico-meccanica e se ne sentono i riflessi anche sulla letteratura e sull’arte.
La peste che colpì l’Europa tra il 1346 e 1356 è stata la pandemia peggiore e più famosa della storia. Migliaia di persone si ammalarono e morirono in qualche giorno o in poche ore.
La peste trovò un’Europa già in gravi difficoltà a causa delle numerose carestie del calo demografico e delle scarse condizioni igieniche, che determinarono la rapida diffusione dell’epidemia.
L’influenza spagnola esplose alla fine della Prima guerra mondiale, quando le popolazioni erano già debilitate dal conflitto e le truppe si muovevano da un continente all’altro. L’influenza veniva trasmessa attraverso gli uccelli o i suini infettati dal virus H1N1.
Ha ucciso fra i 50 e i 100 milioni di persone nel mondo, un numero di vittime molto più alto di quello prodotto della stessa Grande Guerra. Arrivò fino ai confini del globo abitato, fin sull’Artico.
Fu chiamata spagnola perché ne parlarono per primi i giornali spagnoli. Non si conoscevano cure, se non rimedi empirici contro la febbre, l’uso della mascherina facciale o l’isolamento.
La letteratura registra naturalmente gli eventi pandemici: Giovanni Boccaccio, nel Decameron, racconta la peste del 1348. Questo evento gli serve per creare una cornice alla sua storia; pertanto, la descrizione di essa è sintetica, ma chiara e precisa.Lo stile adoperato da Boccaccio è uno stile tragico, ovvero caratterizzato da un tono solenne accompagnato da una descrizione lucida, distaccata e realistica.
Boccaccio dichiara di non sapere la causa di questo flagello, se sia dovuto all’ira di Dio o sia scaturito da forze celesti, però descrive la visione animalesca della peste e la conseguente disgregazione sociale che produce.
L’uomo non è più in grado di ricordare gli antichi valori e vivere civilmente; ogni affetto scompare, tutto è una lotta per la sopravvivenza.
Anche William Shakespeare ci parla della peste.
In Romeo e Giulietta la malattia epidemica è presente per la maggior parte come un sottofondo costante e di basso livello, che emerge nei discorsi dei suoi personaggi, più vividamente in espressioni metaforiche di rabbia e disgusto.
Oppure in situazioni concrete: ad esempio la città di Mantova è in stato di quarantena per un’epidemia di peste e quindi frate Giovanni si ammala e non riesce a recapitare il messaggio di frate Lorenzo che può salvare Romeo.
Daniel Defoe scrive il Diario dell’anno della peste. Si è discusso a lungo se il Diario sia interamente creazione di Defoe, oppure se Defoe abbia rielaborato un documento del 1665.
Defoe si accinse a scrivere ricorrendo alla tecnica delle false memorie in prima persona, già sperimentata con i precedenti romanzi, utilizzando vecchi documenti e racconti orali.
Sebbene Defoe scrivesse di eventi accaduti molti anni prima, il suo stile giornalistico rende più realistiche le sue descrizioni.
Alessandro Manzoni dedica spazio al flagello della peste nella sua più grande opera: I promessi sposi.
In questo caso si parla della peste della metà del 1600 che Manzoni presenta con grande obbiettività quando illustra come sia nata, come si sia sviluppata e della conseguente situazione a Milano.
Per quanto riguarda le cause della peste, Manzoni crede che essa non sia una maledizione divina che si abbatte sugli uomini, ma neppure che sia una calamità naturale contro cui non ci si può difendere. La sua diffusione è invece favorita da precise responsabilità umane, che un metodo d’indagine scientifico deve scoprire e denunciare.
Anche il Friuli-Venezia Giulia è stato colpito duramente da epidemie e pandemie.
Un breve confronto operato tra le pandemie della storia e il COVID-19 evidenzia le analogie tra i comportamenti messi in atto per fronteggiare o difendersi dalle epidemie storiche e dal COVID-19.
Il Friuli ha una storia di resistenza a numerose pestilenze.
La peste bubbonica arrivò nel Mediterraneo dai focolai dell’India meridionale o dell’Africa centrale e colpì il Friuli a partire dal 541 d.C. circa, lasciando villaggi abbandonati, terre agricole trasformate ed enormi danni all’economia.
Tra il 1200 e il 1900, una lunga serie di malattie danneggiò le comunità friulane: diverse pestilenze, il così detto “male del montone” (tipico di questo animale, ma che colpiva anche l’uomo), il tifo petecchiale.
Anche il 1359 viene ricordato come l’anno dell’epidemia pestilenziale, “morbo micidialissimo”.
A Udine, in particolare, la peste colpì crudelmente nel 1381.
Nel 1445 ci fu una nuova grande peste, nel 1467 colpì San Daniele e qui fece ritorno nel 1510, mentre nel 1533 sopraggiunse anche a Spilimbergo dove morirono 450 cittadini.
E ora la pandemia di COVID-19 che si è diffusa in Italia dal 2020. I primi due casi italiani ufficiali della pandemia sono stati confermati il 30 gennaio 2020, quando due turisti provenienti dalla Cina sono risultati positivi al virus SARS-CoV-2 a Roma.
Cosa facevano un tempo quando arrivava la peste?
Nei documenti storici si parla di: isolamento degli infetti, provvedimenti restrittivi alla mobilità.
Nel 1476 il giurato-sindaco ser Zannino Mozzi vietò la sosta dei forestieri in città così come controllò i malati del Pio Ospedale provenienti da luoghi sospetti di peste, per evitare rischi di contagio agli altri degenti.
Due anni dopo si inaugurò la tecnica dei “rastrelli”, ovvero sbarre rigidamente vigilate agli ingressi della città, che impedivano il passaggio a chiunque non avesse la “patente di sanità” rilasciata da un medico.
Oggi per prevenire la trasmissione di COVID-19 conosciamo i ben noti metodi propagandati: igienizzare spesso le mani, mantenere una distanza di sicurezza, indossare la mascherina e non toccare con le mani gli occhi, il naso o la bocca.
I luoghi in cui ricoverare i malati: un tempo il lazzaretto veniva eretto fuori dalle mura e le costruzioni spesso erano di legno, così da poterle bruciare e distruggere dopo il contagio.
A Udine, nel 1445, il Consiglio maggiore aveva deciso di costruire un lazzaretto fuori città. Nacque così il lazzaretto di San Gottardo.
Durante le visite agli ammalati i dottori indossavano una specie di toga lunga e incerata, una maschera dotata di occhiali e di un lungo becco contenente delle essenze aromatiche, aglio e spugne imbevute di aceto, tutti elementi che avrebbero dovuto contrastare il rischio di contagio.
Oggi c’è l’ospedale. I malati gravi di COVID-19 sono ricoverati in aree specializzate in ospedale, i meno gravi sono in quarantena nelle loro case.
Durante le visite agli ammalati i dottori indossano una tuta protettiva per evitare il rischio di contagio.
Un tempo veniva redatto il bollettino settimanale, dove venivano registrati i morti e le nascite. Se i morti erano maggiori delle nascite, i teatri si chiudevano.
Oggi, giornali e telegiornali, avvertono dei morti che continuano a salire e pubblicizzano le regole da seguire.
Rimedi: un tempo le persone compravano tutti i rimedi possibili per mandare via la peste o per guarire.
Oggi molte aziende guadagnano sopra al virus, alzando i prezzi o inventando rimedi per prevenirlo.
Funerali: un tempo venivano scavate fosse comuni per i morti, dove venivano gettati i corpi delle persone morte.
Anche al giorno d’oggi i corpi delle persone morte a causa del COVID-19 non sempre hanno ricevuto una degna sepoltura.
Un tempo i commercianti non toccavano il denaro: questo veniva messo in un vasetto con dell’aceto per disinfettarlo.
Oggi i commercianti cercano di mettere il denaro in alcuni sacchetti di plastica, per poi pulirlo con l’alcol.
Estratto dal testo teatrale scritto da Cristina Andreoli, interpretato da Manuela Cammarata, Andrea Cravè e Alessandro Rossi
Personaggi:
Narratore
Anna
Pierangelo
NARRATORE:
E’ un caldo pomeriggio estivo, Anna con il suo cane Toby esce per fare una passeggiata: guinzaglio, mascherina e via verso il solito parco. Toby, attratto da qualcosa, corre verso un giardinetto dove siede un ragazzo dell’età di Anna vestito in modo un po’ strano, diverso dai coetanei di Anna… ma chi è? E come diavolo è vestito? Quella capigliatura è legale?
(Anna gli si avvicina, accarezza il cane in modo timido e imbarazzato e subito si scusa)
ANNA:
Scusi per il mio cane, di solito non si comporta così.
PIERANGELO:
Nessun problema Madame. Scusate se mi permetto ma vostro padre vi lascia andare in giro così? E poi cos’è quell’affare che avete sulla faccia? Vi serve per non sporcarvi mentre mangiate?
(Anna sbarra gli occhi incredula squadrandolo)
ANNA:
Nel 2021 è così che ci si veste… Lei invece… Sembra essere rimasto indietro di un bel po’.
E beh, oh beh… magari questa fosse un accessorio per aiutarci a mangiare. È una mascherina chirurgica. C’è in corso una pandemia da più di un anno e indossare una mascherina quando si esce di casa per proteggersi è ormai una prassi, un dovere.
PIERANGELO:
Oh, caspita… 2021? Quanto tempo è passato…mi state dicendo che dopo quasi 400 anni c’è ancora la peste che stermina i popoli?
ANNA:
Peste? No no… Si chiama Coronavirus, Covid-19 se si vuole parlare scientificamente, ecco… Ma mi sta dicendo che lei… Lei ha vissuto gli anni della peste nera?!
PIERANGELO:
Si Madame… Oh per bacco! Che maleducato, non mi sono nemmeno presentato.
Sono Pierangelo Preziosi. Sono nato nel 1613 nel Ducato di Milano. La mia adolescenza l’ho trascorsa durante l’epidemia di peste che scoppiò intorno al 1629 e durò quattro anni.
ANNA:
Caspita!
PIERANGELO:
Non fu un periodo molto bello per me. Milano, stava subendo oramai da un anno una pesante carestia, aggravata da una crisi delle esportazioni di prodotti tessili. Mio padre era a capo di alcune importanti reti commerciali e con la crisi tutta la mia famiglia finì sul lastrico.
ANNA:
Milano? 1613? Cosa è successo alla sua famiglia? Alla fine, ce l’ha fatta suo padre a recuperare il lavoro? Com’è finita?
NARRATORE:
Pierangelo racconta ad Anna che il padre nel 1631 si ammalò di peste, mentre lui e due dei suoi fratelli minori si erano rifugiati presso un convento abbandonato, dove bivaccavano altre famiglie terrorizzate dall’epidemia in corso.
Il padre contagiò la madre e il fratellino di un anno. Pierangelo e i suoi fratelli non potevano dunque tornare a casa in quel momento.
ANNA:
Non avevate tipo delle mascherine, qualcosa per proteggervi? Non c’era nessuna cura? E i sintomi quali erano?
PIERANGELO:
Molti pensavano che bastasse indossare vestiti pesanti per non prendere la peste…ma i vestiti non ci proteggevano neanche dalle pulci a loro volta infette dai topi. La peste si prendeva facilmente e se ce l’avevi eri automaticamente spacciato. I primi sintomi erano: febbre alta, delirio, sete ardente, emorragie diffuse, per non parlare dei bubboni all’inguine e alle ascelle. Vicino a casa mia, ricordo, c’era una famiglia con cinque figli.
ANNA:
Oh, santo cielo ma è terribile! Cosa è successo alla famiglia vicina?
(Pierangelo racconta con la voce rotta dall’emozione)
PIERANGELO:
La madre si ammalò e nel giro di tre giorni si ammalarono tutti. Di solito gli infetti venivano portati nell’isola del Lazzaretto Vecchio e lasciati al loro triste destino. Quella famiglia però rimase a casa. Accusarono la donna di aver preso la peste dall’amante e dunque venne incolpata di adulterio. I preti pensavano fosse un castigo che Dio dava ai peccatori e molto spesso i malati venivano maltrattati direttamente per questo motivo.
ANNA:
Poveretti!!
PIERANGELO:
Dopo che la donna rimase vittima della peste, portarono il resto della famiglia sull’isola.
(Anna si dimostra incredula, spiazzata e rincuora Pierangelo)
NARRATORE:
Pierangelo continua a raccontare le vicende con voce triste e tremolante. Racconta ad Anna di essere rimasto con i fratelli e con quelle famiglie sconosciute per un anno intero, poi uno dei fratelli morì durante un freddo inverno.
Poco tempo dopo una suora li trovò e li portò con sé in un orfanotrofio dove rimasero fino alla fine dell’epidemia finché non tornarono nella casa d’origine.
PIERANGELO:
Questo Covid invece…com’è? Vedendovi a passeggio immagino che non sia tanto allarmante…
ANNA:
Oh beh… Ormai è da più di un anno, che il Covid fa parte delle nostre vite. È iniziato tutto in Cina dove, non si sa ancora per quale motivo, il virus è esploso e ha infettato la città di Wuhan.
All’inizio non c’era tanto allarmismo, il virus stava in Cina e non era un problema che riguardasse tutti. In seguito, sono iniziati i primi contagi anche in Europa e nel resto del mondo. E così l’11 marzo del 2020 il virus è stato dichiarato pandemia mondiale.
PIERANGELO:
Oh, caspita…sembra una cosa veramente terrificante! Ma vedendovi passeggiare tranquillamente, mi viene da chiedervi, i sintomi quali sono?
(Anna arriccia il naso quasi come se si sentisse provocata)
NARRATORE:
E spiega a Pierangelo i sintomi del Covid.
(La versione integrale del copione è disponibile nella sezione “Da consultare”)
Liceo C. Percoto – Udine
Laboratori di ricerca qualitativa – a cura della classe 3A E del Liceo C. Percoto
La situazione di grave incertezza e di rapidi cambiamenti dovuti all’emergenza sanitaria è stata l’occasione per raccogliere attraverso lo strumento delle interviste, riflessioni e racconti su una quotidianità irripetibile e complessa.
Abbiamo organizzato le ricerche in 5 gruppi: 4 hanno realizzato una raccolta di interviste sugli argomenti che abbiamo trovato più significativi, un quinto si è dedicato all’analisi e all’interpretazione di testi letterari relativi alla peste.
Abbiamo avuto l’idea di confrontare l’attuale pandemia a un fenomeno naturale altrettanto catastrofico, il terremoto del 1976, per far emergere analogie, differenze e l’impatto che hanno avuto sulla vita delle persone.
Di significativo rispetto all’esperienza del terremoto, segnaliamo le emozioni degli intervistati, i ricordi ancora molto vivi di uno stravolgimento forte della vita quotidiana, i modi in cui i gruppi familiari e la comunità si sono riorganizzati, hanno affrontato l’emergenza e ripristinato gradualmente la quotidianità.
Abbiamo notato che la narrazione del periodo del terremoto fa emergere il ricordo di una società diversa, più aperta agli altri, più forte e solidale, mentre rispetto alla pandemia, gli intervistati esprimono la percezione che la tendenza egoistica delle persone sia aumentata, e sia più difficile collaborare per trovare un modo per risolvere la situazione.
Abbiamo realizzato alcune interviste per raccogliere dati sul vissuto di persone di età diversa, durante il periodo del lockdown.
Nell’ambito della sfera familiare abbiamo osservato il rafforzamento e l’unione del gruppo famiglia. Contrariamente alla situazione pre-Covid in cui gli adolescenti tendevano ad allontanarsi per cercare autonomia e una propria identità, durante la pandemia essi hanno manifestato il desiderio di contatto con i genitori, per poter alleviare la difficile situazione e trovare supporto.
Per quanto riguarda l’ambiente della scuola e del lavoro, una delle conseguenze messa in evidenza in modo comune da tutte le fasce d’età è stato il forte stress. A questo ha contribuito la sovrapposizione costante fra sfera privata e sfera pubblica, negli spazi fisici dell’agire quotidiano.
Nell’ambito della percezione soggettiva abbiamo riscontrato nei diversi gruppi d’età grande incertezza per il futuro.
Gli intervistati hanno messo in evidenza la regressione nei rapporti tra le persone e la perdita di amicizie occasionali e della fiducia verso l’altro.
E’ risultato diffuso un sentimento di solitudine, alleviato dalla possibilità di comunicare tramite videochiamata, social e messaggi.
Il primo aspetto rilevante emerso dall’indagine sulle relazioni condotto da un altro gruppo, riguarda la reazione alla scoperta del COVID: sotto i 10 anni gli intervistati hanno dimostrato di non avere una grande consapevolezza, sotto i 30 è stato sottovalutato in quanto ritenuto lontano, mentre sopra i trent’anni c’è stata da subito una diffusa preoccupazione.
Il secondo aspetto riguarda il modo nel quale sono stati vissuti il lockdown, la Pasqua e il Natale a casa: sotto i 18 anni lo stare a casa da scuola è sembrata una vacanza, ma in generale sono stati messi in evidenza la mancanza degli affetti e preoccupazione.
Il terzo punto riguarda il periodo estivo: sopra i 30 anni le persone si sentivano più libere, ma comunque abbastanza preoccupate, mentre le persone sotto i 30 anni erano più spensierate e tranquille.
Il quarto aspetto riguarda il ritorno del COVID in autunno: è stata percepita una generale preoccupazione, ma molti degli intervistati avevano il presentimento di una ricaduta.
Gli intervistati esprimono generalmente incertezza in merito al tempo necessario per il ritorno alla normalità, ma si crede che ci vorrà ancora qualche anno e che le vaccinazioni saranno essenziali per porre fine ai contagi.
Quest’ultimo gruppo si è interessato ai cosiddetti “oggetti pandemici”, cioè agli oggetti che nel periodo della pandemia hanno assunto una valenza nuova, del tutto inaspettata. Abbiamo chiesto a persone di età diverse di scegliere gli oggetti che in questo periodo hanno avuto per loro una particolare importanza e che possono rappresentare il loro vissuto.
Molte persone hanno messo in evidenza la novità dell’uso di dispositivi di protezione (mascherina, igienizzante) e la loro onnipresenza, alla quale abbiamo dovuto adattarci. Sono oggetti che hanno modificato il modo di vedere il mondo e di interagire con le persone.
Un’altra categoria di oggetti molto ricorrente nelle risposte sono i dispositivi tecnologici, che hanno attenuato il senso di solitudine e ridefinito la didattica e l’attività lavorativa. Un’altra scelta molto optata è quella riguardante oggetti che appartengono alla categoria “svago”, in essa rientrano libri, giochi, la bicicletta, la televisione, le padelle e gli attrezzi per il giardino.
Questa scelta è stata condizionata dall’esponenziale aumento di tempo libero che ci siamo trovati ad avere nell’ultimo anno. Il divieto di uscire dalle nostre abitazioni ci ha permesso di sviluppare nuovi hobby e interessi o di approfondire quelli che già avevamo. La pandemia non ha, quindi, avuto un risvolto solo totalmente negativo su di noi. Alla domanda: “che oggetti rappresentano per te la pandemia?” molte persone hanno voluto ricordare anche i momenti positivi di svago.
Per noi che studiamo Scienze Umane è stato utile e vantaggioso realizzare queste ricerche, partendo dagli spunti di riflessione proposti dalle conferenze organizzate dal progetto La vita al tempo del Covid: abbiamo potuto riflettere sui comportamenti sociali, ma anche sulle nostre esperienze personali.
Il contagio fra storia e letteratura: l’interpretazione della peste nei testi degli scrittori – a cura di Asia Buongiorno e Arianna Toso
L’attività di ricerca che è stata effettuata dalla classe 3AE del liceo Caterina Percoto si basa sull’analisi di vari testi di epoche diverse riguardanti le epidemie.
Il fine è stato quello di estrapolare i vari aspetti sociali che hanno accomunato i vari periodi.
Dalla ricerca sono emersi molti parallelismi con l’attuale pandemia come il distanziamento sociale e la paura del contagio.
Estratto da “La guerra del Peloponneso” di Tucidide:
E l’impossibilità di stare tranquilli e l’insonnia incalzavano continuamente. E il corpo, per quanto tempo anche la malattia era al culmine, non si indeboliva, ma resisteva alla sofferenza contrariamente a ogni aspettativa, cosicché i più venivano uccisi o al nono giorno e al settimo giorno dall’arsura interna quando avevano ancora un po’ di energia, oppure, se erano sfuggiti, quando la malattia scendeva nel ventre e in quello sopraggiungeva una forte ulcerazione e contemporaneamente una violenta diarrea, i più in séguito a causa di quella morivano per la debolezza. Passava infatti attraverso tutto il corpo il male che dapprima si era localizzato iniziando dall’alto nella testa, e se qualcuno fosse sopravvissuto ai mali più gravi, lo segnalava poi una menomazione delle sue estremità. Si accaniva infatti sulle parti genitali e sulle estremità delle mani e dei piedi, e molti sfuggivano privati di questi organi, ed alcuni anche degli occhi. E certuni li coglieva anche, subito dopo che si erano rialzati, dimenticanza di tutte le cose allo stesso modo, e non riconobbero sé stessi e i familiari. L’aspetto della malattia infatti, che si rivelò superiore a una descrizione, infieriva, tra l’altro, su ciascuno più violentemente che secondo la natura umana e in ciò dimostrò particolarmente di essere qualcosa di diverso rispetto a qualcuna delle malattie abituali.
Estratto da “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni:
Morti a quell’ora forse i due terzi de’ cittadini, andati via o ammalati una buona parte del resto, ridotto quasi a nulla il concorso della gente di fuori, de’ pochi che andavan per le strade, non se ne sarebbe per avventura, in un lungo giro, incontrato uno solo in cui non si vedesse qualcosa di strano, e che dava indizio d’una funesta mutazione di cose. Si vedevano gli uomini più qualificati, senza cappa né mantello, parte allora essenzialissima del vestiario civile; senza sottana i preti, e anche de’ religiosi in farsetto; dismessa in somma ogni sorte di vestito che potesse con gli svolazzi toccar qualche cosa, o dare (ciò che si temeva più di tutto il resto) agio agli untori.
Estratto da “Il diario dell’anno della peste” di Daniel Defoe:
Fu intorno all’inizio di settembre del 1664 che, insieme ai miei vicini, appresi che la peste era tornata a flagellare l’Olanda; già nel 1663 essa aveva colpito con violenza il nostro paese, e particolarmente Amsterdam e Rotterdam, portata dall’Italia, secondo alcuni, arrivata dal Levante, secondo altri, fra le merci introdotte dalla flotta turca; altri ancora suggerivano che provenisse da Candia, o da Cipro. Non era davvero rilevante da dove arrivasse, ma nessuno poteva ignorare che fosse tornata in Olanda. In verità l’infezione non si diffondeva tanto per via dei malati quanto per via dei sani, o meglio delle persone apparentemente sane. I malati erano riconosciuti per tali, stavano nei loro letti e ognuno aveva modo di guardarsi da loro. Ma molte altre persone avevano preso il contagio e lo maturavano nel sangue senza mostrarlo in alcun modo, e anzi senza saperlo essi stessi. Queste persone recavano morte ovunque con il loro respiro, e la davano a ogni persona che incontravano, la lasciavano in agguato, per il sudore delle mani, su ogni oggetto che toccavano… Questo fatto dimostra come in tempo di peste non ci si possa fidare delle apparenze, e come la gente possa effettivamente avere la peste senza saperlo, per cui non serve isolare i malati, e chiudere le case in cui qualcuno si è ammalto, se non si rinchiudono del pari tutte le persone che il malato stesso ha avuto occasione di avvicinare prima di accorgersi della propria malattia.
Estratto da “Una cosa che comincia per elle” di Dino Buzzati:
“Avanti, avanti!” incitava intanto l’alcalde come a una bestia. “Scuoti la campanella, ti dico, la gente deve sapere che arrivi!” ed egli riprese a scendere le scale. Poco dopo egli comparve sulla porta della locanda e si avviò lentamente attraverso la piazza. Decine e decine di persone facevano ala al suo passaggio, ritraendosi indietro man mano che lui si avvicinava. La piazza era grande, lunga da attraversare. Con gesto rigido egli ora scuoteva la campanella che dava un suono limpido e festoso; den, den, faceva.
Liceo Artistico G. Sello – Udine
Sintesi di una riflessione collettiva, di Caterina Sanvì
Durante questa pandemia è capitato spesso che si mettesse a confronto la nostra situazione di disagio con quella che vissero altre generazioni passate: da situazioni epidemiche a vere e proprie guerre in cui l’essere umano si è trovato costretto a cambiare le proprie abitudini, ridimensionare i propri spazi e rivedere le proprie necessità.
Pare che l’umanità, in momenti di crisi come quello che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo tuttora, cerchi delle soluzioni o escamotage che potrebbero aiutarla a sopravvivere e a non perdere tutti quei valori che vengono messi in discussione.
Il passato per noi rimane un libro di storia, un manuale dal quale speriamo di poter prendere esempio e imparare a gestire le nostre difficoltà.
Abbiamo sentito molto spesso mettere a confronto la nostra situazione con quella dei civili o dei soldati in tempo di guerra. Abbiamo sentito parlare di resilienza, di resistenza, di adattamento e purtroppo si è messa un po’ da parte la situazione di disagio vero e proprio che abbiamo vissuto in molti: da coloro che hanno sofferto di solitudine a chi ha deciso di abbandonare gli studi o di chi tutt’ora fa difficoltà a ritrovare un punto di contatto con gli altri.
Non sto parlando di vittimismo, non penso assolutamente che questa sia una situazione di buio dalla quale non ci rialzeremo più, dico semplicemente che alle volte tendiamo a nascondere i lati di certe faccende perché abbiamo paura che parlarne possa peggiorare la situazione.
Non sono un’esperta in questo ma penso che alle volte condividere le proprie difficoltà possa dare la possibilità di trovare delle soluzioni, anche se non particolarmente rilevanti, e che sicuramente avrebbe aiutato molti di coloro che si sono persi in questa strada tortuosa che è stato ed è il periodo pandemico.
Prendiamo uno dei libri che è stato citato durante le conferenze webinar proposte dal progetto “La vita al tempo del Covid”, Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, citato dallo psicanalista Massimo Recalcati.
Nel passo che fu citato viene descritta la situazione di difficoltà nella quale si ritrova l’esercito italiano, durante la Seconda guerra mondiale, circondato da miglia di neve, in una Russia che li congelava e gli rendeva l’esistenza un tormento. Lo scrittore, narratore e protagonista del racconto, parla della loro determinazione nell’arrivare “In baita” o nel ritornare a casa. È però una determinazione che è accompagnata da una parziale rassegnazione, parziale perché differisce dal totale abbandono e si rivelerà un ingrediente indispensabile per il raggiungimento della meta. Durante una marcia il pensiero del sergente Rigoni è “ancora cento passi e poi mi butto a terra” ma quei passi non sono mai cento, aumentano ogni volta, fino a disegnare il percorso di ritorno. Parla un soldato ma parla l’intero esercito, che forse non ha molta speranza, ma che compatto, anche grazie all’umana rassegnazione che i soldati riconoscono l’uno nell’altro, riesce a camminare.
Penso che la nostra situazione sia piuttosto differente: quella collettività che caratterizza l’esercito viene a mancare nel nostro caso; siamo soli, isolati, distanti e come dicevo prima abbiamo sfruttato poco la condivisone dei nostri disagi.
Viene a mancare una meta, perché noi non sappiamo dove stiamo andando, non sarà “un’uscita” ma solo una prosecuzione, non c’è nessuna baita, ma solo una strada lunga che dobbiamo continuare a percorrere. Per percorrerla dobbiamo guardare avanti e per farlo ci è necessario ritrovare almeno un briciolo di speranza e di curiosità verso un futuro che fino ad ora sembra essere immerso nella più totale monotonia.
La dimensione solitaria e i lunghi silenzi del primo lockdown, serie fotografica di Francesco Coccolo
(Fai partire la traccia audio per ascoltare l’accompagnamento musicale)
Estratti da “Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern – a cura di Valentina Ercolini
Si camminava uno dietro l’altro con la testa bassa. Sotto la coperta e sotto il camice bianco si sudava ma bastava fermarsi un attimo per tremare dal freddo. Ed era molto freddo.
Lo zaino pieno di munizioni a ogni passo aumentava di peso; pareva, da un momento all’altro, di dover schiantare come un abete giovane carico di neve.
“Ora mi butto sulla neve e non mi alzo più, è finita. Ancora cento passi e poi butto via le munizioni. Ma non finisce mai questa notte e questa tormenta?” Ma si camminava. Un passo dietro l’altro, un passo dietro l’altro, un passo dietro l’altro. Pareva di dover sprofondare con la faccia dentro la neve e soffocare con due coltelli piantati sotto le ascelle.
Ma quando finisce? Alpi, Albania, Russia. Quanti chilometri? Quanta neve? Quanto sonno? Quanta sete? È sempre stato così? Sarà sempre così?
Chiudevo gli occhi ma camminavo. Un passo. Ancora un passo.
Il capitano in testa alla compagnia perse il collegamento con gli altri reparti. Eravamo fuori dalla strada giusta.[…]
Abbandonato sulla neve, a ridosso d’una scarpata al lato della pista, stava un portaordini del comando di compagnia. Si era lasciato andare sulla neve e ci guardava passare. Non ci disse nulla.
Era desolato, e noi come lui.
Pagine di un diario di confinamento, di Caterina Sanvì
E noi quanti passi dobbiamo fare? Quanto tempo dobbiamo aspettare? Quante vite dobbiamo vedere passare? Quante cose dobbiamo sperare di capire?
Non sappiamo dove dobbiamo arrivare, o se tutto questo è arrivato per finire… Non siamo sicuri di riuscire a capire, ma solo stanchi di dover sacrificare, rinunciare, rimandare.
Di quale futuro dobbiamo parlare?
E noi guardiamo avanti ma non c’è niente, ci riconosciamo solo in ciò che sta dietro di noi e come si fa ad andare avanti guardando indietro? Non lo abbiamo ancora imparato.
Stiamo camminando, lentamente ma lo stiamo facendo, un passo alla volta. Ma molti di noi si perdono, non c’è un sentiero, forse non c’è mai stato, ma ora in aggiunta al nulla più totale c’è la nebbia, e molti di quelli che non vedono tendono a rinunciare ad andare avanti. Sarà la paura di andare a sbattere o il sapere che nessuno ci sta venendo incontro.
Sapete cos’è che ci rende disarmati? L’assenza del nemico.
Siamo consapevoli che non possiamo prendercela con nessuno, perché il male che prende piede è dentro di noi e questa non è una lotta, non è una guerra.
A noi viene difficile combattere per qualcosa che ci è sempre stato dato, ci viene difficile distinguere ciò che ci è dovuto da ciò a cui eravamo semplicemente abituati, perché infondo siamo “la generazione che ha avuto sempre tutto”.
Abbiamo bisogno di trovare una linea, un percorso nostro. E abbiamo bisogno che ci siano la possibilità e le condizioni per farlo.
Abbiamo bisogno di ricominciare a programmare, anche se poi l’imprevisto ci cambierà i programmi, non importa. Ci basta poter sperare in qualcosa, ci basta riavere la possibilità di fare concretamente qualcosa, anche se non è ciò che desideriamo veramente.
Abbiamo smesso di vivere, stiamo sopravvivendo, perché una vita senza cultura, senza relazione, senza imprevisto e senza problemi da dover risolvere non è vita, è semplice e pura esistenza.
Un giorno ci verrà chiesto di portare avanti il mondo, la nostra è la generazione alla quale si chiede di rimboccarsi le maniche in un mondo che già così è difficile e complicato da portare avanti. Come possiamo farlo noi, se ci viene tolta la possibilità di conoscere, di confrontarci? Qualcuno può sostenere la nostra incapacità nel proporre delle soluzioni, ma finché la nostra parola non verrà richiesta continueremo a risultare incapaci.
Siamo qui, vibranti di nuove idee, di un’immaginazione che si sta appiattendo.
Laboratorio di scrittura creativa
Sentimenti al tempo del Covid, di Alice Ronco
Vorrei vivere la vita respiro dopo respiro, boccone dopo boccone. Come la pizza a gambe incrociate sulla spiaggia, un sorso di Radler e un sorso di mare. Perché così è la vita, è subito, è ora. Domani sarò rigettata su altre spiagge, in balìa della marea della vita. Li ruberei tutti, quei granelli di sabbia di tempo, perché domani vorrei svegliarmi sapendo di essere stata viva. Vorrei alzarmi ogni giorno con una macchia di pomodoro sulla maglietta, per ricordarmi che ieri ho assaporato un altro boccone di vita. Invece oggi no, oggi la mia t-shirt bianca è pulita, il cielo è un soffitto bianco come le sue pareti, il mio viso è pallido, sento che non c’è più colore, la vita ha dimenticato le sue mille sfumature. Ieri, l’altro ieri, oggi: sono tutti uguali da quando ho iniziato a chiedermi se ho vissuto abbastanza, da quando ho iniziato a pensare che mi stavo perdendo qualcosa, da quando ogni giorno è rimasto bianco e non c’è più stata memoria sufficiente per dare alle mie giornate un colore brillante, una nuova vita. Il rimpianto. Il rimpianto di essermi lasciata scorrere quei granelli di tempo addosso, senza nemmeno tentare di afferrarli. È questa la vita, in fondo: tentare di afferrare l’inafferrabile, in un eterno rincorrersi. Ho smesso di rincorrere, come quando da piccola giocavo ad acchiapparella: non ero mai abbastanza veloce e chiedevo di essere rincorsa. La vita però non ti rincorre. Si fa rincorrere fino allo stremo e se perdi il fiato non puoi fare altro che sperare. In questi casi ci si dice che andrà tutto bene, che finirà, passerà. “Andrà meglio”, dicono, “non ti preoccupare”. Quanto siamo disposti a crederci? Quanto ancora pensiamo di poterci sfamare con parole di rassicurazione? È come viaggiare col serbatoio semivuoto: la benzina ormai si consuma sul fondo, la spia è accesa, lampeggia e non smette di pulsare, come a ricordarci che ci spegneremo in tangenziale da un secondo all’altro. Chi ci aspetterà? Come potrà andare meglio? Per quanto sopravviveremo in riserva? Eppure la spia è accesa, le ruote continuano a girare sull’asfalto, le immagini scorrono ancora sui finestrini. Non resta altro che andare avanti, un chilometro dopo l’altro. La speranza. La speranza di vivere domani ciò che non si è vissuto ieri, che il domani riprenderà il suo colore, che ci sveglieremo con una macchia di pizza sui vestiti, che berremo mare e coca cola, che la sabbia ci si infilerà nei vestiti, che rimarrà appiccicata sulla pelle, perché così è la vita. È la speranza che mantiene accesa la pulsazione di quella piccola spia.
Se fossi una stagione, di Giulia Mauro
Se fossi una stagione sarei la primavera perché credo da sempre nei nuovi inizi, come i fiori che sbocciano quando sono pronti a farlo. La primavera è poi luminosa e accesa di colori, illuminata da raggi di sole che portano le esperienze migliori. Essa lascia spazio alla speranza di calore e gioia dopo un periodo freddo che si pensava non passasse più, un po’ come alcune fasi della mia vita.
Credits La vita al tempo del Covid
DOCENTI Eleonora Clocchiatti – Liceo Copernico Raffaella Fabris – Liceo Copernico Alessandra Cannataro – Liceo Copernico Caterina Drusin – Liceo Copernico Susi Del Pin – Liceo Copernico Giordana Marzullo – Liceo Copernico Annamaria Rosito – Liceo Copernico Beatrice Bonato – Liceo Copernico Elisa Cedolini – Liceo Copernico Saviana Corso – Liceo Copernico Sergio Luciano – Liceo Copernico Gloria Perosa – IIS Linussio Luca Martini – IIS Linussio Cinzia Cantarutti – IIS Linussio Luciana Bergomas – Liceo Marinelli Francesca Bonfanti – Liceo Marinelli Anna Tomasella – Liceo Marinelli Costanza Travaglini – Liceo Marinelli Chiara Tempo – Liceo Percoto Maria Liana Rigutto – ISIS Stringher Walter Criscuoli – Liceo Sello
STUDENTI COORDINATORI Nur Noacco – Liceo Copernico Simone Ceschia – Liceo Copernico Daniela Kanapari – Liceo Marinelli Lavinia Burelli – Liceo Marinelli Greta Lavia Zuliani – Liceo Marinelli Arianna Toso – Liceo Percoto Andrea Cravè – ISIS Stringher Caterina Sanvì – Liceo Sello
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