Ragazzi in piazza
E’ un progetto educativo sulla memoria della Grande Guerra e in particolare riguardo gli aspetti culturali, sociali e politici del primo dopoguerra. La conoscenza della guerra intende offrire agli studenti paradigmi per interpretare e considerare le conseguenze di conflitti del tempo presente, superando lacerazioni ereditate dal passato e favorendo una cultura di dialogo e collaborazione.
Conferenze
L’avvio del progetto è affidato a quattro esperti proposti da Teatro Club Udine per altrettante conferenze rivolte ad insegnanti e studenti, precedute o seguite da lezioni dei docenti e da momenti di riflessione all’interno di ogni singola classe.
Martedì 19 gennaio 2021
“Ricostruzione e rinascita materiale e morale a Udine e in Friuli nel primissimo
dopoguerra”
Relatore prof. Enrico Folisi, storico dell’età contemporanea già docente di fonti
documentarie visive e audiovisive all’Università di Udine.
Giovedì 28 gennaio 2021
“Dall’uomo disorientato in Pirandello al disagio del reduce in Brecht e Toller”
Relatore prof. Gianni Cianchi, docente di storia del teatro all’Accademia
Nico Pepe di Udine.
Giovedì 4 febbraio 2021
“Un mondo in bilico tra pace e guerra. D’Annunzio e l’avventura fiumana fra
nazionalismi, trasgressioni, ribellismo e sogni di un mondo nuovo”
Relatrice prof.ssa Antonella Sbuelz, docente e scrittrice
Lunedì 8 febbraio 2021
“Prima, durante e dopo la Grande Guerra: come cambia il costume femminile”
Relatrice prof.ssa Raffaella Sgubin, Direttore Servizio Ricerca, Musei e
Archivi storici di ERPAC – Ente regionale per il patrimonio culturale del FVG
Laboratori
Parallelamente al lavoro in classe con i docenti, che procede per stimoli, letture, ricerche e suggestioni, i laboratori segnano il punto di svolta del percorso: gli studenti da destinatari diventano protagonisti di un percorso che diventa anche produttivo e creativo. L’adesione ai laboratori è una libera scelta degli studenti anche se il numero dei partecipanti viene contingentato a causa della pandemia in corso.
LABORATORIO DI STORIA
a cura di Carlo Federico Del Mestre, laureato in Storia Contemporanea all’Università di Udine e insegnante. Titolo: Dalle cronache del Giornale di Udine, alla ricerca delle dinamiche della storia e di suggestioni controfattuali.
LABORATORIO DI FOTOGRAFIA
a cura di Franco Martelli Rossi, fotografo e docente. Titolo: Fotografia e racconto, dalle oggettive sequenze storiche alle suggestive interpretazioni dell’era digitale. L’attività prevede anche due uscite per scatti fotografici in ambiente urbano.
LABORATORIO DI PROGETTO
a cura di Francesco Accomando, attore e regista teatrale
Il laboratorio di progetto ha il compito di coordinare le varie classi e gli altri laboratori nella creazione di un evento culturale finale costituito dalla giornata conclusiva. Vi partecipa almeno uno studente di ogni classe che svolge una funzione di collegamento e coordinamento tra il laboratorio e i propri compagni in classe, tra linee di indirizzo generale ed elaborazioni particolari.
Giornata conclusiva
Immaginavamo un evento culturale collettivo, con tutte le classi al Teatro Palamostre di Udine: un convegno, letture, brevi frammenti recitati, una mostra, una festa. La pandemia, con la seconda e soprattutto la terza ondata ci ha costretto ad una scelta diversa: un webinar registrato in video. Non abbiamo rinunciato anche se dell’evento è rimasta un’intenzione.
La pandemia ha avuto il solo potere di dare più valore all’esperienza.
RAGAZZI IN PIAZZA è stato trasmesso in streaming il 17 giugno alle ore 21.
Il video non è più disponibile
Materiali del progetto
Laboratorio di fotografia
Foto di Lara Marin | IIS Jacopo Linussio | Classe 5AP
Foto di Stefania Pignolo | IIS Jacopo Linussio | Classe 5AP
Foto di Nicola Grion | Liceo Scientifico Niccolò Copernico | Classe 5DLSA
Foto di Silvia Pittino | Liceo Caterina Percoto | Classe 5BE
Foto di Noemi Mariotti | IIS Jacopo Linussio | Classe 5AP
Foto di Gioele Bortolussi | Liceo Caterina Percoto | Classe 5BE
Laboratorio di progetto
ISIS Bonaldo Stringher – Udine
La ripresa della viticoltura in Friuli dopo il Primo Conflitto Mondiale – a cura di Sara Andrigo, Sylla Desmond Konadu, Luca Mauro, Andrei Pana, Sabrina Paviotti e Nicole Verilli
Alla fine 800 il vivaismo friulano ha già raggiunto un notevole sviluppo.
La diffusione di alcune malattie delle piante di vite aveva determinato una forte crisi di tutto il settore in Italia, come in Francia e nel centro Europa. La diffusione di alcuni parassiti come la Filossera, l’Oidio e la Peronospora, aveva portato alla distruzione di gran parte dei vitigni europei
Queste calamità naturali dettero impulso alla ricerca di specie più resistenti. I vigneti vennero in un primo momento sostituiti con ibridi e successivamente venne innestata la vite americana in quella italiana per avere delle radici più forti. Questa varietà si diffuse molto rapidamente e causò la scomparsa di molte varietà più sensibili.
Con l’inizio del ‘900 la produzione vinicola era in costante crescita e divenne la principale attività̀ economica del Friuli austriaco. Il vino bianco rappresenta il 62{a7d255ab9c6f443b9df0aa6235be2ae1990cd6465adf83fffead0849022dcc33} della produzione totale
La guerra interrompe tragicamente l’opera di ammodernamento del parco vinicolo.
I territori che facevano parte dell’impero austro ungarico subirono in maniera molto pesante l’impatto delle ostilità: l’arruolamento degli uomini fino a 42 anni nell’Imperial Regio esercito austro-ungarico, determinò un forte spopolamento delle campagne poiché diventate ormai insicure.
Lo scoppio della guerra, la costruzione delle trincee, avevano costretto le popolazioni locali ad abbandonare le terre. Gran parte dei terreni agricoli, anche nei territori non teatro di guerra si ricoprirono di sterpaglie.
I soldati di entrambi gli schieramenti si sfamavano con tutto quello che trovavano nei campi, danneggiando colture, orti e qualsiasi tipo di coltivazione.
I paesi prossimi al fronte furono bersaglio dell’artiglieria austriaca e italiana. Ciò portò alla distruzione di quasi tutte le località che si trovano sulla linea del fuoco, e gravi danni anche a quei luoghi che formavano le immediate retrovie. I colpi distruggevano case ed edifici pubblici, ma finivano per colpire anche civili inermi. Il passaggio del fronte portò anche alla completa distruzione di interi centri abitati.
Drammatica ad esempio la situazione di San Martino del Carso, Doberdò e degli altri centri del Carso goriziano, così anche Lucinico e tutti i paesi a ridosso di Gorizia che furono completamente distrutti, ridotti a cumuli di macerie.
Alla fine del conflitto bisognava far fronte alla distruzione che era stata portata nelle campagne dai combattimenti e dalle nuove linee di comunicazione militare, alle devastazioni provocate dai bombardamenti e alla requisizione di molti edifici per l’utilizzo bellico come ricoveri per i soldati e depositi vari.
Sul Collio la terra friabile, estremamente pregiata per la coltivazione delle ciliegie e della vite, perdette ben presto qualsiasi consistenza.
Praticamente tutta la viticoltura di collina, in particolare del Collio e del Carso, era stata rasa al suolo dai lunghi anni di combattimenti.
In senso agricolo e viticolo bisognava innanzi tutto: bonificare buona parte dei terreni acquistare le barbatelle ed allevarle; sistemare, ristrutturare o ricostruire i locali da adibire a cantine ed acquistare tutta l’attrezzatura indispensabile per la vinificazione.
Nel dopoguerra il patrimonio di conoscenze sulla viti-vinicoltura dell’Ottocento, le tecniche utilizzate e le modalità di lotta contro le malattie, risultarono fortemente compromessi. La documentazione subì infatti l’impatto della guerra: fu seppellita dalle macerie, distrutta o addirittura portata via dai molti proprietari terrieri di allora, cittadini austriaci che ritornarono all’interno dei loro nuovi confini nazionali.
Nell’autunno del 1917, poche settimane prima della battaglia di Caporetto, un caporale dell’esercito italiano, un certo Sartori, insegnò ad alcuni agricoltori locali la tecnica dell’innesto a spacco, che all’epoca andava per la maggiore nel Nordovest del Regno d’Italia, ma che a Nordest era praticamente sconosciuta però, si diffuse velocemente tanto che si può dire che salvò la viticoltura mondiale. Così nel 1920 si fondò a Rauscedo il primo nucleo di attività vivaistico-viticola che sviluppò la tecnica di innesto su vite americana, metodo fondamentale per preservare le viti dalla malattia della filossera.
Emblematico è il caso della tenuta di Villa Russiz di Capriva del Friuli, tenuta rinomata per la produzione di vini pregiati di origine francese.
Durante la Grande Guerra, Villa Russiz viene trasformata in lazzaretto e ospedale militare nella prima retrovia del fronte italiano. Passata allo Stato Italiano dopo la guerra, bisogna aspettare la fine degli anni ’50 perché inizi la paziente opera di ristrutturazione sia dei vigneti sia delle cantine con la collaborazione solidale di tutta la comunità di Capriva del Friuli. Il 28 novembre 1964 Villa Russiz entra a far parte del neonato Consorzio Collio, che, nel 1968, ottiene la DOC.
Oslavia si trova nella contea di Gorizia, a pochi chilometri dal confine fra il Regno d’Italia e l’impero austro-ungarico, lungo il fiume Judrio. Qui si combatte la prima battaglia dell’Isonzo che iniziò il 23 giugno 1915. Oslavia, si trovò ad affrontare violenti bombardamenti che costrinsero la popolazione ad abbandonare il paese. Nel 1918 con la fine della guerra i civili fecero ritorno nella cittadina di Oslavia e si ritrovavano di fronte alla distruzione più assoluta: solo una parete intonacata di bianco rimase in piedi dopo il conflitto, il famoso LENZUOLO BIANCO. Fra le macerie sopravvissero i forti tralci di Ribolla che vennero utilizzati per realizzare gli innesti, così facendo rinacquero le viti assieme agli abitanti di Oslavia.
da Microcosmi di Claudio Magris
Lettura di: Sylla Desmond Konadu
La laguna di Grado finisce ad Anfora e a Porto Buso. Fino alla grande guerra, più in là c’era l’Italia e gli irredentisti gradesi, i repubblicani del circolo Ausonia, attraversavano di notte il canale per toccare la patria. […] Quel canale era un confine fatale, linea di fuoco di un conflitto mondiale. Grado stessa è un confine, una striscia che segna diverse frontiere. Fra terra e mare, tra mare aperto e laguna chiusa, ma soprattutto fra civiltà continentale e civiltà marinara. Grado nasce da Aquileia, ma gli undici chilometri che le dividono marcano una distanza profonda. […]
segnano il passaggio da un’ariosa venezianità marina a una Mitteleuropa continentale e problematica, grandioso e malinconico laboratorio del disagio della civiltà, esperto del vuoto e della morte. […] (p.75)
Quando Biagio Marin, prima della grande guerra, studente liceale a Gorizia e socio fondatore dell’Ausonia, attraversava a nuoto quel canale per toccare l’Italia, doveva certo fargli piacere spogliarsi, togliersi tutte quelle difese imparate alla grande scuola mitteleuropea e gettarsi in acqua, lasciarsi andare al fluire della vita. Attraversava il canale, tornava indietro e non sapeva più quale era il suo posto, la sua patria, da che parte stare. L’avrebbe imparato, e per sempre, pochi anni dopo, dichiarandosi – a Vienna, dove studiava, in un tempestoso colloquio col rettore nel marzo 1915 – un patriota italiano desideroso di far la guerra all’Austria, e poche settimane più tardi – in Italia, protestando contro un becero capitano dell’esercito italiano, in cui si era arruolato volontario – un austriaco abituato a uno stile e a un tono ben più civili. (p.76)
[…] fra il ’15 e il ’18, le frontiere orientali d’Italia sono un’ecatombe. Forse l’unico modo per neutralizzare il potere letale dei confini è sentirsi e mettersi sempre dall’altra parte. (p. 76)
Lettura di: Nicole Verilli
La prima azione contro l’Austria-Ungheria venne compiuta dal cacciatorpediniere Zeffiro contro un avamposto austriaco a Porto Buso.
Dal rapporto del comandante del cacciatorpediniere Zeffiro, Arturo Ciano; 24 maggio 1915, ore 3 del mattino.
«evitando ogni rumore, si entrava nel Canale di accesso di Porto Buso e, non veduti, si riusciva a superarlo felicemente fino a raggiungere il traverso del pontile e della Caserma Austriaca, a 500 m . di distanza. Un bassofondo con dolce declivio montante, proprio in corrispondenza del pontile che era in parte interrato. Qui il siluro da noi lanciato si è arenato senza scoppiare. Ecco allora scattare l’azione aprendo il tiro a granata con i tre cannoni da 76 mm. I colpi di cannone diretti contro le porte e le finestre della caserma e il pontile hanno centrato perfettamente il bersaglio danneggiando i fabbricati e la torretta d’osservazione sfasciando altresì gli scafi che erano ormeggiati lungo il pontile, causando tra l’altro dei piccoli incendi. I soldati austro-ungarici, colti nel sonno, si sono a precipizio dispersi in direzioni varie nei canali vicini, dove alcuni sono annegati. Sospeso il fuoco da un estremo dell’isolotto è stato alzato un distintivo bianco su di un’asta e poco dopo un gruppo di superstiti denudati si è agglomerato agitando panni bianchi in prossimità del pontile. I prigionieri sono 48. Alle 6 ho fatto ritorno a Venezia e, sbarcato in barella un soldato austro-ungarico ferito alle gambe, ho consegnato gli altri 47 compreso il Comandante della Compagnia, e due altri feriti, all’Ammiraglio Patris. Ufficiali ed equipaggio dello Zeffiro hanno compiuto il loro dovere con entusiasmo, calma e serenità».
Nell’elenco dei prigionieri di Porto Buso ci sono diversi italiani, anzi la maggior parte erano della nostra regione, e di Grado. Tanto che quando lo “Zeffiro” sbarcò i prigionieri a Venezia, la gente accorsa sulla Riva degli Schiavoni per vedere il “nemico”, rimase stupefatta sentendo quegli uomini parlare l’italiano e quasi lo stesso dialetto.
Lettura di: Luca Mauro
Dal diario di Cesare Unti: Lenzuolo Bianco (GO), 20 gennaio 1916
Verso il 20 gennaio ci termina il riposo e di nuovo ri siamo in marcia dopo averci passato in rivista il Generale Comandante della divisione, dove di nuovo si ritorna nelle solite posizioni, questa volta un po’ più a destra, queste posizioni si chiamava Lenzuolo Bianco nei pressi di Gorizia, ove si arrivò la notte del 24 gennaio che ci accolsero al suon di cannonate perché, in quella notte altri Reggimenti dovettero abbandonare le trincee e noi per i più affortunati bisognò riconquistarle, e per qualche giorno bisognò lottare accanitamente per non riperderle, ma qualche giorno dopo tanto sacrifici bisognò abbandonarle ritirandosi nella terza linea, perché non si poteva stare in cima a questa valletta perché eravamo troppo bersagliati dal cannone, tanto noi come il nemico non ci si poteva restare, bisognava vedere tanto che i nostri cannoni come quelli suoi vomitavamo granate da rimanere sbalorditi da non capir più niente e io mi aspettavo da un momento all’altro di andare all’altro mondo, e qui tanti della mia Compagnia trovarono la pace eterna e più il mio tenente comandante del Plotone se ne andò all’altro mondo,
poi venne che il nemico si fu ben sfogato ci lasciò un po’ tranquilli, ma noi non si dormiva perché avevamo paura di qualche tradimento e tutte le notti bisognava andar di pattuglia e montare di vedetta fuori della trincea a pochissimi metri dal nemico, e questo era l’ordine per tanto di far vedere sempre al nemico che non si dormiva di tirare ogni tanto una fucilata, e a volte loro guardavano di regalarci qualche granata a mano che per fortuna non faceva bersaglio.
Liceo Caterina Percoto – Udine
Gli abusi perversi durante la Grande Guerra: le violenze sessuali impartite alle donne durante la Prima Guerra mondiale – di Giulia Sattolo
La violenza sessuale è una delle più pesanti tra le vessazioni sui civili che ogni occupazione militare porta con sé, ma in una guerra, dove l’immagine ignobile del nemico e dunque la legittimità del suo annientamento sono esasperate all’ennesima potenza, il tema del corpo violato delle donne acquista un’importanza nuova, suscitando inchieste ed alimentando retoriche propagandistiche.
Il clima di guerra mondiale del primo conflitto mondiale portò come conseguenza, nelle zone coinvolte, anche l’annullamento delle differenze fra militari e civili.
Alla fine dell’ottobre 1917, a seguito della rotta di Caporetto, le zone di conflitto tra il regno d’Italia e l’impero austro-ungarico (ad esempio il Friuli ed il Veneto) vennero invase dall’esercito asburgico in un regime di occupazione militare che durò un anno intero caratterizzato da saccheggi e stupri di massa.
A fornirci importanti dati su quanto accaduto sono le relazioni inviate alla reale commissione d’inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico, istituita a Roma con decreto legge del 15 novembre 1918 n.1711 e presieduta dal giurista Ludovico Mortara (primo presidente della corte di cassazione), la segreteria ufficiale spettò al friulano Alberto Asquini.
Per la raccolta della documentazione venne chiesto il contributo a tutti coloro che durante l’occupazione assunsero dei ruoli nell’amministrazione pubblica (sindaci,…) ma soprattutto ai parroci a cui venne inviato un questionario molto dettagliato da compilare.
Le relazioni inviate furono all’incirca 121, sono oggi costudite nell’archivio corrente della curia arcivescovile di Udine e riguardano le cinque province che furono occupate: Belluno, Treviso, Venezia, Vicenza ed Udine.
Il quadro finale fu reso meno attendibile dalla reticenza a parlare di tali esperienze traumatiche da parte delle donne e della comunità locale, che non voleva attirare troppa attenzione su di sé attraverso eventi di tale specie, ma si deve tener presente che si commise il grande errore di far svolgere gli interrogatori delle vittime a uomini, provocando una comprensibile reticenza per pudore e vergogna, e anche il fatto che la maggior parte delle fonti (sindaci, medici e parroci) erano maschili e pertanto fu presente una certa inclinazione maschilista e moralista nel voler, tra l’altro, limitare l’entità del fenomeno nella propria comunità, quasi a voler esorcizzare il richiamo ad una propria responsabilità di maschi che non erano riusciti a proteggere delle donne, e qui ritorna il richiamo ai significati simbolici della violenza, intesi come dimostrazione dell’impotenza di difendere la popolazione femminile.
Le istituzioni non aiutarono le donne a superare il trauma, anzi, si preferì dimenticare quanto successo e si tenne in considerazione di queste relazioni solo ai fini della quantificazione dei danni arrecati dalle truppe di occupazione, per sottolineare la violenza subita dalle comunità e non per documentare i danni di genere.
La maggioranza delle aggressioni avveniva di notte quando i soldati si raggruppavano in bande da 3-6 ma anche 10 e 20 e facevano irruzione nelle abitazioni, impadronendosi delle donne e, spesso, costringendo anche il marito, i genitori, i figli o i famigliari tutti ad assistere al supplizio delle vittime mentre venivano picchiati e beffeggiati.
Il risultato di quel periodo tremendo in alcune donne fu la contrazione di malattie veneree, per questo, per indicarle, fu coniato il termine ‘mutilate morali’, in altre, una gravidanza, che portò alla fondazione nel dicembre del 1918 a Portogruaro, su iniziativa di don Celso Costantini, l’istituto San Filippo Neri.
Denominato ‘ospizio dei figli della guerra’ con l’obbiettivo di accogliere i bambini concepiti in un modo così violento e soprattutto, non con il proprio marito.
Nello specifico in Friuli si parla del TRAUMA DI CAPORETTO – IL CORPO VIOLATO DI CAPORETTO
La circostanza geografica in cui si verifica la maggior parte degli stupri furono le campagne, specialmente le zone con minore concentrazione di popolazione, spesso i soldati si presentavano già ubriachi o saccheggiavano l’abitazione della povera sventura anche di vino e cibarie.
Lo stupro, in questo caso, non è, spesso, confinato ad essere esperienza individuale, ma è da intendersi come violenza collettiva, al plurale, spesso più di uno è i carnefici, più di una è la vittima.
Delle vittime di cui conosciamo nomi e circostanze sono solamente 165, mentre di 570 la loro identità rimane ignota.
Da sottolineare è come, mentre in alcuni casi sono conosciute le generalità delle vittime, non altrettanto lo sono quelle dei carnefici, che restano così in una zona grigia dell’anonimato.
L’accettazione o meno della prole e le difficoltà nel reinserimento nel contesto di appartenenza, la pressione psicologica attuata sulla donna da più parti: dal marito dalla famiglia, dalla legge, dalle istituzioni e dalla morale che favorivano, con richieste di assensi e di silenzi, di rinuncia e di esclusioni, di sensi di colpa e di sofferenze, una moltiplicazione dell’esperienza traumatica.
Si ricordi poi che la donna, attraverso lo stupro, diventava impura, destinata alla marginalizzazione, se non all’esclusione, e non era considerata nemmeno la vera vittima, ruolo che spettava invece, per paradossale antologia, all’uomo al suo fianco.
Nascituri te salutant!
Lettura di SARA ZAMO’
Siamo i bambini non ancora nati
Bambini dei dolori e dei rimpianti selvaggi
Senza pace ‘ nel grembo delle nostre madri
Aspettiamo spaventati ‘ il tempo designato
I nostri padri giacciono su un campo calpestato
I loro occhi fissi e spalancati nella morte
Le loro ossa bianche segnano per noi il cammino
Dovremo seguirli ‘ là dove ci hanno preceduto?
Giungeremo non desiderati ‘ e non accolti
Succhieremo il latte da seni inariditi
Impareremo l’angoscia ‘ e il piacere dell’odio
Invece dell’amore a cui avremmo diritto
Senza aiuto ‘ lotteremo per la vita
In una terra arida, devastata e grigia
I nostri fragili corpi dietro l’aratro
Faranno solchi leggeri e poco profondi
Alla fine diventeremo carne da cannone?
Giaceremo anche noi su un campo calpestato?
Meglio per noi sarebbe stato ’ non essere ‘ mai stati concepiti
Noi, ‘ figli di guerre aggressive
Il nostro pianto ‘ risuonerà fino alla fine del mondo
Il nostro odio ‘ vivrà quando anche noi moriremo
Ma voi che sapete, ‘ abbiate pietà di noi
Noi, ‘ i bambini non ancora nati!
L’economia nel Dopoguerra – a cura di Gioele Bortolussi, Esmeralda Degano, Martina Ermacora, Sinead Ging, Irene Picco, Silvia Pittino e Veronica Quattrocchi
presenta Tommaso Zanin
Un saluto a tutti, visto l’indirizzo specifico della nostra classe la nostra esposizione tratterà il tema del primo dopoguerra dal punto di vista economico e sociale. Io parlerò nello specifico del primo.
Già dal titolo della prima slide possiamo capire le conseguenze che ha avuto la prima guerra mondiale nel territorio italiano. Vi sono perdite umane molto consistenti (si parla di più di 600.000 morti) e ingenti danni materiali.
Quest’ultimo aspetto portò il governo a massicce spese per la ricostruzione e la riconversione delle fabbriche belliche in fabbriche per produrre beni di consumo. Nel corso di questi anni l’eccessiva spesa incrementò il debito pubblico del 429{a7d255ab9c6f443b9df0aa6235be2ae1990cd6465adf83fffead0849022dcc33} creando un primo fenomeno di migrazione della classe contadina.
Proprio questo sarà il tema della prossima slide, l’emigrazione. L’Italia ha vissuto tre periodi di flussi migratori: la Grande Emigrazione (1861-1920), l’emigrazione verso gli Stati Uniti del 1920 e l’emigrazione durante il periodo fascista. Dati alla mano si parla di un milione e mezzo di persone che lasciarono l’Italia nel solo 1922 con una grande differenza rispetto al passato: si iniziò a muovere la famiglia intera e non solo il padre.
Per concludere vi è un aumento dei prezzi che crea una inflazione molto alta comportando l’incremento delle tasse. L’inflazione si verificò a causa dell’incremento della moneta in circolazione e con il fenomeno dei biglietti con un’emissione che oltrepassava le necessità economiche dello stato nello sciogliere il debito del biglietto emesso.
Dal grafico possiamo constatare come ci sia un picco del rapporto tra il debito pubblico ed il PIL nel 1921 proprio a seguito della grande guerra come evidenziato dal cerchio attorno allo stesso
Vorrei concludere la mia disamina su questo periodo invitandovi ad una riflessione su quanto accaduto e su come siamo riusciti a rialzarci nonostante queste difficoltà sperando che succeda nuovamente con questa pandemia.
Grazie per l’ascolto.
Il Dopoguerra sociale -a cura di Gioele Bortolussi, Esmeralda Degano, Martina Ermacora, Sinead Ging, Irene Picco, Silvia Pittino e Veronica Quattrocchi
presenta Angelica Casaro
Il tema “dopo guerra” é un argomento alquanto complesso e per trattarlo é importante partire da un noto poeta italiano, Clemente Rebora.
Clemente Rebora è stato un poeta italiano, nato a Milano nel 1885.
Uno dei principali meriti artistici dell’autore, derivano dalle pubblicazioni in memoria della Prima Guerra mondiale.
I temi tratti infatti riconducono al rapporto dell’uomo con la tragica esperienza della guerra, come ad esempio le emozioni provocate dalle trincee, il sangue, lo smarrimento, la violenza e la morte.
La poesia che oggi citiamo per le tematiche trattate é “Il Viatico” dalla lirica “Poesie Sparse”.
Il motivo di fondo della poesia “Il Viatico” è costituito dall’orrore e dai traumi provocati
dalla guerra, sul piano sia dello strazio fisico che sul tormento psichico.
L’autore descrive la realtà, che viene esposta agli occhi del lettore attraverso aspetti crudi e tormentati: il corpo che giace di un soldato morente,
l’imminenza della morte, la mutilazione e l’orrenda deformazione dell’uomo.
All’interno della poesia si fa riferimento ad un episodio molto comune in guerra: il tentativo di soccorrere un soldato ferito e di riportarlo entro le proprie linee. Viene esasperata la condizione di disumanità: viene descritta infatti l’impossibilità di sostenere il dolore procurato della guerra che rende folli soldati, ma questa
forma di follia non viene accompagnata dalla perdita di coscienza ne deriva
quindi che il tormento rimanga insopportabile e perpetuo.
Tormento che non viene dimenticato e che quindi si tramuta in trauma.
In riferimento a ciò è fondamentale parlare di Nevrosi di Guerra, tema affrontato da molti studiosi, ma più in specifico da Sigmund Freud, fondatore della “psicoanalisi”.
Freud comincia a parlare di psicoanalisi con la riflessione che ha per oggetto i traumi che conducono alla “nevrosi traumatica”, sintomatologia caratterizzata dal ricordo dell’evento traumatico che si manifesta attraverso incubi e attacchi d’ansia.
Freud però in un secondo momento comprese che il trauma agisce anche in assenza del ricordo: un ricordo rimosso talmente doloroso, in un secondo momento diventa trauma.
Freud nello specifico delle Nevrosi traumatiche ebbe modo di concentrarsi sulla Nevrosi di guerra. Si può definire nevrosi di guerra, quell’insieme di patologie psichiatriche
dovute a traumi bellici che iniziarono a manifestarsi in un numero sempre più elevato di
persone, proprio per questo il problema venne affrontato in un importante congresso,
di Budapest del 1918.
Tra i traumi più ricorrenti riconosciamo il fenomeno dello shock di bombardamento o Shell shock, un disturbo da stress post traumatico dovuto a bombardamenti (come dice il nome).
I sintomi principali possono essere tremori, panico, paura, incapacità di ragionare,
camminare costantemente senza meta e parlare senza rendersi conto, scarse capacità di ragionamento.
Le stime dell’epoca sostenevano che intorno al 1917: 1 soldato su 30 soffriva di Shell Shock.
La maggior parte dei soldati che soffrirono di tale patologia vennero ricoverati in manicomi.
Bombardamento di Tommaso Marinetti
Lettura di Gaia Mansutti
ogni 5 secondi
cannoni da assedio
sventrare
spazio
con un accordo
tam-tuuumb
ammutinamento di 500 echi
per azzannarlo sminuzzarlo sparpagliarlo all´infinito
nel centro di quei tam-tuuumb
spiaccicati
(ampiezza 50 chilometri quadrati)
balzare scoppi tagli pungi batterie tiro rapido
violenza ferocia regolarità
questo basso grave
scandire
gli strani folli agitatissimi acuti della battaglia
furia affanno
orecchie occhinarici aperti attenti forza
che gioia vedere udire fiutare tutto tutto
taratatatata delle mitragliatrici strillare a perdifiato
sotto morsi shiafffffi traak-traak
frustate pic-pac-pum-tumb bizzzzarrie
salti
altezza 200 m. della fucileria
Giù giù in fondo all’orchestra
stagni diguazzare buoi buffali pungoli carri pluff plaff impennarsi di cavalli
flic flac zing zing sciaaack
ilari nitriti iiiiiii…
scalpiccii tintinnii
3 battaglioni bulgari in marcia croooc-craaac
[ LENTO DUE TEMPI ] Sciumi Maritza
o Karvavena croooc-craaac grida degli
ufficiali sbataccccchiare come piatttti d’otttttone
pan di qua paack di là cing buuum
cing ciak [ PRESTO ] ciaciaciaciaciaak
su giù là là intorno in alto attenzione
sulla testa ciaack bello Vampe
vampe
vampe vampe
vampe vampe
vampe ribalta dei forti dietro quel fumo
vampe
vampe
Sciukri Pascià comunica telefonicamente
con 27 forti in turco in tedesco
allò Ibrahim Rudolf allò allò
attori ruoli echi suggeritori
scenari di fumo foreste
applausi
Viatico di Clememente Rebora
Lettura di Simone Marian
O ferito laggiù nel valloncello,
tanto invocasti
se tre compagni interi
cadder per te che quasi più non eri.
Tra melma e sangue
tronco senza gambe
e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti
a rantolarci e non ha fine l’ora,
affretta l’agonia,
tu puoi finire,
e nel conforto ti sia
nella demenza che non sa impazzire,
mentre sosta il momento
il sonno sul cervello,
lasciaci in silenzio
grazie, fratello.
Liceo Jacopo Stellini – Udine
Il Friuli-Venezia-Giulia nel primo Dopoguerra – a cura di Vera Fanizzi, Rodolfo Somma e Caterina Turco
Rientro dei profughi
Presenta: Vera Fanizzi
Cos’è un profugo? E’ persona costretta ad abbandonare la sua terra, il suo paese, la sua patria in seguito a eventi bellici, a persecuzioni politiche o razziali, oppure a cataclismi come eruzioni vulcaniche, terremoti, alluvioni, ecc.
Sono definiti sfollati o profughi indifferentemente coloro che furono allontanati dalle zone di guerra dall’esercito italiano nelle prime fasi della guerra., così come coloro che al termine di essa rientrarono nelle terre che erano stati costretti a lasciare.
Per permettere ciò bisognava fossero garantite le necessarie strutture di accoglienza. Infatti molti dei paesi che erano stati evacuati nel maggio del 1915 erano ridotti ad un cumulo di macerie. Nel Friuli Orientale già durante il 1918, sotto l’amministrazione austriaca, erano stati avviati progetti di ricostruzione;
le autorità comunque, prima di consentire il rientro delle famiglie dai campi profughi, verificavano la disponibilità di strutture adeguate.
Dopo la fine della guerra, a partire dai centri più colpiti, si avviarono progetti per la costruzione di baracche che ospitassero i profughi rientranti. A Monfalcone venne realizzato un vero e proprio quartiere di baracche di legno. Il rientro in Friuli dei profughi sparsi nel Regno d’Italia avvenne con una notevole lentezza, soprattutto per le difficoltà legate ai trasporti: era naturale che strade, ponti e ferrovie dovessero venir riadattati prima di consentire la regolarità dei movimenti.
La memoria di guerra
Presenta: Rodolfo Somma
All’indomani della prima guerra mondiale, uno dei più grandi lasciti è stato il ricordo di anni passati in trincea, dove persero la vita padri di famiglia e non solo. Per colmare questo vuoto serviva reinterpretare questi anni sporchi di sangue amico e nemico e dare un nuovo senso alla morte, ormai onnipresente in tutti i settori sociali. Il ricordo delle migliaia di soldati morti in battaglia doveva essere visto con nuovi occhi, bisognava eliminare dalla mente del popolo l’idea di una guerra che è costata la vita ad intere generazioni e imporre così una nuova immagine. Nasce così il mito dei caduti.
Al fine di fare arrivare questa nuova interpretazione della tragicità della Grande Guerra, ossia il ricordo glorioso di chi sacrifica la vita per il bene comune, vennero edificati numerosi monumenti e cimiteri lungo tutto il territorio nazionale per ricordare alla gente comune del grande sacrificio e del merito conquistato con la vita di migliaia di italiani. Questo clima lo respirava anche monsignore Clemente Cossettini che, tornato dal fronte, per circa vent’anni seguì la realizzazione di quello che oggi ci e noto con il nome di Tempio Ossario.
Il progetto prevedeva di accogliere oltre 20.000 salme tumulate da più di 200 cimiteri sparsi in regione e aveva come intento quello di enfatizzare i valori nazionali grazie alla sua monumentalità e alla presenza delle quattro colossali statue raffiguranti il marinaio, l’alpino, il fante e l’aviatore.
Si voleva che il ricordo persistesse non solo attraverso la costruzione di memoriali ai caduti, ma anche negli aspetti più comuni della vita cittadina. È per questo che si iniziarono a intitolare vie e scuole a generali o battaglie avvenute, e talvolta gli stessi nomi di città coinvolte in prima persona nelle battaglie. È il caso di città come Sdraussina che diventa nel 1923 Poggio terza Armata o Ronchi di Monfalcone, diventata Ronchi dei legionari.
Le conseguenze della guerra nella società locale
Presenta: Caterina Turco
Nei territori attraversati duramente dal fronte era necessario avviare i processi di ricostruzione e riorganizzarvi il tessuto economico e sociale. Trieste doveva integrarsi in un sistema, quello italiano, che fino a quel momento aveva rappresentato la concorrenza nel controllo dell’Adriatico; al posto dell’Austria-Ungheria, ora nel Centro Europa vi erano una serie di Stati diversi e sovrani. Le conseguenze della guerra sulla popolazione del Friuli Orientale furono pesanti: oltre ai caduti, decine di migliaia furono gli orfani di guerra e le vedove di guerra, che avevano diritto a pensioni e risarcimenti; migliaia furono gli edifici distrutti o danneggiati in modo grave. Le città di Gorizia e Monfalcone erano in larga parte distrutte, così anche le industrie, come i Cantieri navali di Monfalcone.
La rinascita passava necessariamente attraverso la ricostruzione, possibile anche grazie agli indennizzi per danni di guerra subiti. Tra le industrie che vennero rapidamente rimesse in funzione grande importanza ha il Cantiere navale triestino di Monfalcone, che rimase di proprietà degli armatori Cosulich e la cui attività riprese rapidamente, cercando di adeguare la produzione alle richieste del mercato, realizzando anche carrozze ferroviarie e idrovolanti. Una delle attività che più segnarono l’immediato dopoguerra fu, nelle zone già attraversate dal fronte, il recupero di materiali bellici:questi rappresentavano una vera e propria miniera di metalli e materiali collocabili sul mercato. Il pericolo stava però nel maneggiare ordigni inesplosi, tanto che molti perirono in questa ricerca, che all’epoca poteva rappresentare una pericolosa fonte di guadagno.
Testimonianze raccolte da:
Alessandra Bortoletti
La grande guerra vide, al pari dell’intera provincia del Friuli, anche l’economia e la società della piccola città di Maniago, paese natale dei miei nonni, schiantate dagli eventi bellici.
La ritirata italiana e l’occupazione austro-germanica devastarono il territorio, in particolare le risorse e le scorte agricole andarono completamente perdute, il patrimonio bovino venne quasi azzerato dalle requisizioni. “L’anno dell’invasione è ricordato da tutti come l’anno della fame” dice mio nonno, che ha cercato di riportarmi il più fedelmente possibile i racconti di suo padre Alfonso, Cavaliere di Vittorio Veneto, che ha combattuto durante la Grande Guerra ed ha avuto la fortuna di tornare a casa dalla sua famiglia dopo essere stato anche prigioniero di guerra per un anno.
La grande stagione delle rivendicazioni contadine che caratterizzò il Friuli nel biennio 1919-1920 interessò solo marginalmente il comune di Maniago, dove pure si svolsero manifestazioni di disoccupati per chiedere lavoro alle autorità, forse perché essendo una regione prevalentemente di piccoli proprietari agricoli non si diede peso alle grandi manifestazioni dei mezzadri e affittuari organizzati dalle leghe bianche e rosse.
Mio nonno all’epoca era poco più che bambino ma ricorda molto bene l’aria che tirava in casa: c’era fame, miseria, tanta paura per gli eventi appena passati. Un particolare interessante che ha voluto raccontare era quello dei giocattoli dei bambini diffusi all’epoca, nello specifico le cartoline che venivano diffuse al tempo che invitavano a seguire gli esempi dei bambini raffigurati sulla carta: i piccoli venivano invitati a rinunciare a saltare con la corda per non consumare troppo la suola delle scarpe oppure cercavano di non fare macchie sui fogli con la propria penna in modo da evitare gli sprechi. Le stesse cartoline poi suggerivano di non mangiare nulla fuori pasto e di non utilizzare lo zucchero, un bene che all’epoca scarseggiava.
Tuttavia, non era di certo il momento del gioco quello che si ricordavano maggiormente i bambini dell’epoca, ma la povertà e il bisogno di lavorare per portare il pane in tavola. Mio nonno ricorda che suo padre, traumatizzato terribilmente dalla sua esperienza sia come soldato sia come prigioniero, anche a una quindicina di anni di distanza dalla fine della guerra aveva molta difficoltà a dormire e spesso si svegliava di soprassalto, urlando, rimanendo sveglio per ore tormentato dagli incubi.
La grande guerra vide, al pari dell’intera provincia del Friuli, anche l’economia e la società della piccola città di Maniago, paese natale dei miei nonni, schiantate dagli eventi bellici.
La ritirata italiana e l’occupazione austro-germanica devastarono il territorio, in particolare le risorse e le scorte agricole andarono completamente perdute, il patrimonio bovino venne quasi azzerato dalle requisizioni. “L’anno dell’invasione è ricordato da tutti come l’anno della fame” dice mio nonno, che ha cercato di riportarmi il più fedelmente possibile i racconti di suo padre Alfonso, Cavaliere di Vittorio Veneto, che ha combattuto durante la Grande Guerra ed ha avuto la fortuna di tornare a casa dalla sua famiglia dopo essere stato anche prigioniero di guerra per un anno.
La grande stagione delle rivendicazioni contadine che caratterizzò il Friuli nel biennio 1919-1920 interessò solo marginalmente il comune di Maniago, dove pure si svolsero manifestazioni di disoccupati per chiedere lavoro alle autorità, forse perché essendo una regione prevalentemente di piccoli proprietari agricoli non si diede peso alle grandi manifestazioni dei mezzadri e affittuari organizzati dalle leghe bianche e rosse.
Mio nonno all’epoca era poco più che bambino ma ricorda molto bene l’aria che tirava in casa: c’era fame, miseria, tanta paura per gli eventi appena passati. Un particolare interessante che ha voluto raccontare era quello dei giocattoli dei bambini diffusi all’epoca, nello specifico le cartoline che venivano diffuse al tempo che invitavano a seguire gli esempi dei bambini raffigurati sulla carta: i piccoli venivano invitati a rinunciare a saltare con la corda per non consumare troppo la suola delle scarpe oppure cercavano di non fare macchie sui fogli con la propria penna in modo da evitare gli sprechi. Le stesse cartoline poi suggerivano di non mangiare nulla fuori pasto e di non utilizzare lo zucchero, un bene che all’epoca scarseggiava.
Tuttavia, non era di certo il momento del gioco quello che si ricordavano maggiormente i bambini dell’epoca, ma la povertà e il bisogno di lavorare per portare il pane in tavola. Mio nonno ricorda che suo padre, traumatizzato terribilmente dalla sua esperienza sia come soldato sia come prigioniero, anche a una quindicina di anni di distanza dalla fine della guerra aveva molta difficoltà a dormire e spesso si svegliava di soprassalto, urlando, rimanendo sveglio per ore tormentato dagli incubi.
Giovanna Foi
È stata mia nonna a testimoniare sulle esperienze del primo dopoguerra nella sua famiglia, e una cosa che spesso mi ha raccontato in questi anni, della quale molte volte si è trovata a parlare, è la situazione che da bambina viveva in casa dei nonni.
Suo nonno Gerardo era stato chiamato a combattere sul Carso tra le truppe d’assalto vicino al monte San Marco; lì era stato fatto prigioniero e portato a Milovich, tra Germania e Ungheria, per 5 mesi. La sua prigionia era stata dominata da un unico, terribile spettro, la fame.
Una volta tornato a casa era ridotto a pelle e ossa, per mangiare durante le prime settimane aveva bisogno del contagocce da quanto avesse lo stomaco ritratto. In famiglia si erano stravolti tutti gli equilibri a causa della guerra, in una famiglia patriarcale (come quella del tempo) l’assenza della figura del marito e del padre non era trascurabile né per la moglie né per i figli ma, nonostante questo, la nonna di mia nonna, e con lei tutte le donne nella sua situazione, ha dovuto, in assenza del consorte, fare sia da madre sia da padre ai figli.
Neanche una volta tornato a casa nonno Gerardo aveva ripreso le sue funzioni all’interno della famiglia, anzi, essendo stremato e traumatizzato dall’esperienza della guerra, era il componente più debole all’interno di quest’ultima; quello a cui andava prestata maggiore attenzione, a cui venivano riservati i pezzi di carne migliori, il posto migliore a tavola e il più comodo per dormire. Tuttavia, anche se in modo diverso, era tornato ad essere il perno attorno a cui ruotava tutta la famiglia.
Della stessa famiglia anche uno zio di mia nonna era stato vittima della Grande guerra, ma lui, a differenza del nonno di mia nonna, aveva subito le peggiori ripercussioni a livello psicologico: dopo il trauma della guerra era diventato sonnambulo. Mia nonna si ricorda di quando, in piena notte, tutta la famiglia si alzava e usciva di casa trovandolo sui cornicioni delle finestre degli edifici del vicinato e non sapeva come gestire la situazione, non potendolo nè svegliare nè raggiungere.
Della famiglia di mio nonno invece ho notizie di suo padre Antonio: il mio trisavolo. Antonio era stato fatto prigioniero dopo Caporetto e ciò che ricordava meglio di quella prigionia era la lunghissima marcia a piedi per arrivare al campo a cui era destinato, si trattava di seicento chilometri da Plezzo a Zwichau, i più lunghi della sua vita a causa del freddo e della fame. Anche lui era magro da far spavento ma era riuscito a salvarsi perchè, essendo stato sarto, cuciva i vestiti ai prigionieri francesi che ricevevano molti beni dalle loro famiglie, e questi, attraverso la croce rossa, giungevano anche a lui.
La madre di mio nonno poi, aveva un ricordo della guerra completamente diverso: aveva dodici anni e non ha mai nascosto di aver gioito a causa dello scoppio della guerra al momento della chiusura del collegio dove studiava. Era solo una bambina, non aveva pensieri e si godeva quell’eterna vacanza che gli era stata concessa. Assieme ai suoi genitori salì sull’ultimo treno per il Veneto e vide il ponte di Pinzano, sul Tagliamento, saltare alle sue spalle. Concluse il suo viaggio da profuga a Firenze dove si creò amicizie e riprese a frequentare la scuola; fu lì che le arrivò la notizia della vittoria del solstizio e della vittoria finale.
IIS J. Linussio – Codroipo
La propaganda nel primo Dopoguerra – a cura di Leonardo Borroni e Andrea Chittaro
La tematica che affronteremo è quella della propaganda nel primo dopoguerra.
Innanzitutto, cos’è la propaganda?
“Con il termine propaganda intendiamo una serie di attività volte alla diffusione di idee o informazioni, col fine di influire sul comportamento e il pensiero delle masse.”
Già durante il primo grande conflitto alcuni Paesi avevano compiuto diversi atti propagandistici per tenere alto il morale delle nazioni, sia sul fronte interno, per sostenere l’unità nazionale, sia su quello bellico.
Attraverso quali mezzi?
- Manifesti
Questo manifesto inglese è stato diffuso con lo scopo di reclutare civili per la Grande guerra. Rappresenta il ministro della guerra Lord Kitchener mentre indica colui che legge, e nello stesso tempo pronuncia la parola “you”.
2. Eventi
come il famosissimo volo su Vienna di Gabriele D’Annunzio…
3. Scritti
Questa è la parte iniziale dell’articolo di Giovanni Papini pubblicato sulla rivista “Lacerba” il I ottobre del 1914, nel quale l’autore si schierò a favore della guerra, trovando in essa un modo per arrivare ad una società più forte e unita.
“Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura.
Finalmente stanno pagando la decima dell’anime per la ripulitura della terra.
Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne.”
Qual è il ruolo della propaganda dopo il primo conflitto mondiale?
L’aspetto su cui ci siamo concentrati è quello della propaganda del post guerra, quindi…
qual è il ruolo della propaganda dopo il primo conflitto mondiale? –
In Italia, nonostante l’acquisizione di terre, si erano perse numerose vite, lasciando delle “ferite” incurabili all’interno della società.
Lo Stato italiano pensò che ci fosse bisogno di un simbolo di unità nazionale.
È opportuno ricordare che il Regno d’Italia era ancora relativamente giovane, e la guerra appena combattuta aveva messo in evidenza le problematiche di una Paese in realtà privo di un passato comune. Il Regno presentava numerose differenze a livello linguistico, ma soprattutto storico.
Lo Stato, dopo l’idea del Colonnello del Regio Esercito Italiano Giulio Douhet di dare un tributo ai caduti in guerra, nominò una commissione con lo scopo di individuare 11 salme di soldati non identificati.
Tra queste ne sarebbe stata scelta una, la quale sarebbe stata portata nel Vittoriano a Roma.
Il compito di prendere tale decisione fu affidato a Maria Bergamas, madre di Antonio Bergamas, un soldato irredento.
Dopo l’individuazione nella basilica di Aquileia, la salma del soldato iniziò il viaggio che l’avrebbe fatta arrivare fino a Roma.
Il viaggio, però, non fu veloce come quello di un normale trasporto merci: si decise volontariamente di far fermare il treno con il feretro del defunto in ogni stazione fino all’arrivo a Roma.
Si voleva far sì che le persone delle diverse città si riconoscessero in questo simbolo.
Dopo cinque giorni il feretro arrivò nella capitale, e dopo due iniziò il corteo che lo portò fino al Vittoriano, dove fu tumulato sotto la statua della dea Roma.
Ad attenderlo c’era un pubblico eterogeneo, ma accomunato da un sentimento di unità nazionale.
Possiamo citare, ad esempio, Otto Dix.
Otto Dix, un pittore tedesco che abbraccerà per certi certi versi l’Espressionismo, per altri il Dadaismo.
Otto Dix grazie all’influenza della propaganda decise di arruolarsi come volontario nell’esercito tedesco, come sottufficiale, combattendo in trincea.
Quest’esperienza, però, lo segnò a tal punto che da interventista diventò pacifista, tant’è che dedicò la sua carriera artistica a raccontare gli aspetti più negativi della guerra.
Dix dipinse quadri incentrati su temi forti come appunto la guerra, la morte al fronte e i reduci nelle città del dopoguerra.
Di seguito alcune opere iconiche:
IL TRITTICO DI GUERRA
L’opera rappresenta un’intera giornata sul campo di battaglia ed in particolar modo il momento dello scontro armato.
Nella prima tavola a sinistra sono raffigurati alcuni soldati che partono per andare in battaglia.
Nella tavola centrale traspare un notevole caos: a sinistra appare un soldato con addosso una maschera antigas che lo rende irriconoscibile; sulla destra
i cadaveri evidenziano le atrocità della guerra, in quanto ammassati e irriconoscibili.
Nel pannello sulla destra, invece, il pittore rappresenta sé stesso mentre salva un alleato.
Sulla parte inferiore della tavola centrale sono raffigurate alcune salme all’interno di una bara. L’immagine fa riferimento al sepolcro di Cristo e si pensa che i morti siano i caduti sepolti in trincea.
TRUPPA D’ASSALTO AVANZA SOPRA I GAS
L’opera mostra alcuni soldati combattere con le maschere antigas.
Traspare la disumanità dei loro gesti e la noncuranza delle proprie azioni: le persone sembrano tutte uguali e si confondono fra di loro.
Qui l’autore cerca di incutere terrore in colui che guarda.
INVALIDI DI GUERRA CHE GIOCANO A CARTE
Attraverso quest’opera Dix analizza, e mostra attraverso immagini grottesche e surreali, come vivono e sono ridotti i reduci di guerra, i quali nonostante la loro condizione cercano comunque di vivere una vita normale.
Queste tre tavole mettono in luce il male vissuto dall’artista durante e dopo la guerra: Dix vuol far emergere e mostrare quella società ormai priva di emozioni ed affetta da numerosi traumi, che come lui stesso ha constatato, fanno parte ormai di una nuova normalità.
Le opere di Otto Dix non furono molto apprezzate dalla critica perché rappresentano gli orrori della guerra, che era ciò che ogni cittadino tedesco non voleva ricordare.
L’alimentazione in Friuli dopo la Prima Guerra mondiale – a cura di Ezoua Francesco Gnazouble e Lorenzo Zucchiatti
IL PERIODO DELL’OCCUPAZIONE AUSTRO TEDESCA
OTTOBRE 1917 – NOVEMBRE 1918
FONTE: Adundecimum, annuario storico 2020
La popolazione friulana in questo periodo subì le requisizioni di prodotti agricoli e delle corrispettive scorte di questi, di viveri, degli animali e dei vestiti già dai primi giorni dell’occupazione. Le frequenti razzie, da parte del nemico, di natura violenta e crudele continuarono fino alla fine della prima guerra mondiale. L’esercito invasore, oltre ad aver effettuato un censimento della popolazione, aveva provveduto alla compilazione di speciali elenchi dei proprietari di terre e dei loro coloni.
Si sequestrarono pure le provviste di farina di frumento e di granoturco, oltre a legumi, patate, vino, olio, sementi, foraggi, frutta ed anche i maiali, le pecore, le capre ed il pollame.
Il razionamento della carne prevedeva all’inizio una razione di 500 grammi pro capite, ridotta poi a 200 grammi alla settimana; di conseguenza venne pure regolata la macellazione.
Il razionamento della carne prevedeva all’inizio una razione di 500 grammi pro capite, ridotta poi a 200 grammi alla settimana; di conseguenza venne pure regolata la macellazione.
Comandi di Tappa requisirono i bovini necessari agli agricoltori per il lavoro e per la fornitura del latte e dei vitelli.
DOPO LA GUERRA
FONTE: intervista al Maestro di cucina Germano Pontoni e alla sorella, l’editrice de “L’orto della cultura”, sig.ra Maura Pontoni
Dopo la prima guerra mondiale la disponibilità alimentare si differenziava, infatti nelle campagne (ma anche i più umili nelle città) tutti dovevano possedere una tessera per i razionamenti, in modo che l’erogazione di generi alimentari venisse controllata. Questo venne evitato parzialmente in Friuli grazie alle coltivazioni di riso ed alla produzione di cellulosa (dal pioppo). Ma questo “successo” venne parzialmente cancellato perché molte aree territoriali necessitavano di bonifica e le valli alpine pativano una grave carenza alimentare. Fortunatamente strutture come monasteri ed ospitali effettuavano un costante controllo sulla distribuzione dei generi alimentari ed offrivano all’occorrenza aiuti in quest’ambito (anche grazie alla produzione interna). Ovviamente questa situazione non si applicava ai nobili, i quali tramite servitori e/o gastaldi si curavano delle loro proprietà terriere e si procuravano alimenti d’importazione (prevalentemente dalle colonie), ma dato che i prodotti basilari erano pochi, spesso anche i ricchi faceva affidamento sul “menù della giornata”: a questo pensavano le massaie acquistando l’occorrente al mercato. È da dirsi che nel dopoguerra c’era carenza di alimenti carnei, dato il pesante saccheggio del bestiame avvenuto durante la guerra, ma anche scarseggiavano le classiche farine, inoltre la polenta era diffusissima come piatto principale nella colazione e spesso anche negli altri pasti (in sostituzione del pane). Oltre a tutto ciò, data anche la scarsa varietà alimentare, le minestre e/o zuppe la facevano da padrone per la loro naturalità e semplicità in fatto di ingredienti (basti pensare che per la preparazione del brodo si utilizzavano gli scarti dell’animale come ali o zampe di gallina).
Da specificarsi è il fatto che la qualità di queste minestre era variabile, dato che i focolai domestici raggiungevano con difficoltà la temperatura di ebollizione (ca. 100 °C) e le pentole in rame erano un’esclusiva dei casati ricchi.
Ritornando alla carne, bisogna sottolineare il fatto che non fosse sparita del tutto, infatti molti contadini e famiglie possedevano il pollaio o altri animali da cortile, utilizzati spesso come baratto nei mercati, ma anche (in misura minore) come alimento delle grandi feste (specialmente religiose).
Per insaporire la carne e attenuare l’odore sgradevole attorno ai recinti si piantavano erbe aromatiche, salvia e rosmarino, i cui germogli venivano mangiati dagli animali aromatizzando le loro carni. Ovviamente le erbe e soprattutto le spezie (introdotte ai tempi della Serenissima) si incorporavano anche separatamente con l’abbattimento dell’animale, sia per conservare la carne, sia per coprirne eventuali effluvi odorosi. Speziare la carne non era però il solo modo per conservarla, infatti specialmente la classe media utilizzava anche la salatura (il Friuli si riforniva dalle saline Istriane), l’affumicatura (la quale variava in aromi a seconda del legno utilizzato) e sotto grasso (per questa erano preparati degli appositi contenitori). Inoltre, come detto, di carne non ce n’era moltissima, quindi si faceva attenzione a sprecare il meno possibile dell’animale (esempi perfetti sono il cotechino, il musetto, le zampe di gallina bollite o il sangue cotto e mangiato come fegato alla veneziana). Oltre a ciò anche i dolci erano una rarità e si producevano solo se ce n’era la possibilità (es. abbondanza di uova per i crostoli). Da considerarsi vi è anche la scarsità degli ingredienti disponibili, dato che la maggioranza della popolazione non poteva permettersi i prodotti rari d’importazione come il cioccolato, il caffè o il tè. Ovviamente la classe più abbiente era esente da tutto ciò e anzi doveva mantenere un equilibrio tra modestia ed abbondanza per non innervosire il “popolino”, infatti anche in merito a questo nelle notti di Natale essa teneva pronto il riso con latte e cannella, così se un povero oppure un mendicante bussava alla porta c’era qualcosa da dar loro. Comunque con il passare del tempo assistiamo ad una “organizzazione” della vendita alimentare, come ad esempio la diversificazione dei prodotti atti a rispondere alle molteplici richieste della clientela o al sezionamento del macellato secondo necessità popolare. Oltre a ciò assistiamo ad una pianificazione della macellazione, preferendo per questa i maschi che avevano concluso il loro “ciclo d’utilizzo” rispetto alle femmine. Comunque a proposito di carne una menzione va fatta alla sua importanza nella società, per l’appunto una famiglia che consumava tanta carne solitamente era benestante.
Un ultimo sguardo va dato agli eventi importanti, come ad esempio i matrimoni, i quali si caratterizzavano per la varietà e quantità inconsueta di alimenti, solitamente l’evento era a carico di entrambi i coniugi e si svolgeva in primavera o in autunno proprio per la maggiore abbondanza di alimenti.
da La via del ritorno di Eric Maria Remarque
Lettura di: Francesco Ezoua Gnazouble
Mio zio Carlo è il parente più importante della nostra famiglia. Possiede una villa e durante la guerra è stato ufficiale nei servizi d’amministrazione.
Lupo mi accompagna ma deve rimanere fuori, perché mia zia non ama i cani. Suono il campanello.
Viene ad aprirmi un uomo in frac, dev’essere il servitore.
Lo zio Carlo mi viene incontro facendo tintinnare gli speroni. Stupito ammiro la sua uniforme fiammante. “Che avete stasera, cavallo arrosto?” gli chiedo per fare uno scherzo.
“Come sarebbe”
“Vedo che vieni a tavola con gli speroni”
Mi lancia un’occhiata velenosa. Senza volere pare che lo abbia toccato nel vivo. Di solito questi scritturali imboscati ci tengono in modo particolare alla sciabola e agli speroni.
Sono lieto quando ci si mette a tavola. Ho accanto a me una giovane con un boa di cigno al collo. Mi piace, ma non so come cominciare. Da soldato si è parlato poco, e quasi mai con donne. Gli altri discorrono animatamente. Io mi sforzo di ascoltare.
A capo tavola, un consigliere della Corte dei Conti, sta spiegando che, se avessimo resistito ancora due mesi, si sarebbe vinta la guerra. Mi sento quasi venir male a quelle chiacchiere, non avevamo né munizioni né uomini. Di fronte a lui una signora racconta del marito caduto e si dà tante arie come se fosse caduta lei e non lui. Un po’ più in la si discorre di società per azioni e di condizioni di pace e tutti sanno naturalmente più di coloro che se ne occupano in realtà. Mi sento tutto stordito a quelle chiacchiere e non riesco più a seguire il filo. La fanciulla col boa mi domanda beffardamente se al campo son diventato muto.
“No” rispondo. E provo un po’ di rabbia, perché non so mostrare quel che penso.
Grazie al cielo, in quel momento portano in tavola delle cotolette croccanti. Io annuso. Sono vere cotolette di maiale, fritte nel grasso autentico. Quella vista mi fa tollerare tutto il resto. Me ne prendo un bel po’ e comincio a masticare con voluttà. Hanno un sapore meraviglioso. Quanto tempo è passato da quando ho mangiato cotolette fresche! L’ultima volta fu nelle fiandre: – avevamo preso due porcellini – e li divorammo fino all’osso una sera d’estate meravigliosamente dolce. Appoggio i gomiti sulla tavola dimenticando tutto quanto succede intorno a me. Le due bestiole erano molto tenere – vi avevamo aggiunto delle crocchette di patate. Non sento e non vedo più nulla, mi perdo nei ricordi.
Una risata mi sveglia. A tavola tutti tacciono. Zia Lina sembra una bottiglia di acido solforico. La ragazza accanto a me reprime una risata. Tutti mi guardano. Il sudore mi scende da tutti i pori. Eccomi qui seduto come allora in Fiandra, dimentico ogni cosa, coi gomiti appoggiati sulla tavola, gli ossi in mano, le dita unte, mentre mordo gli ultimi resti di cotoletta; gli altri invece mangiano garbatamente con coltello e forchetta.
Rosso dalla vergogna guardo davanti a me e poso l’osso. Come ho potuto essere così assente? Ma tanto sono abituato così: al fronte abbiamo sempre mangiato a questo modo, avevamo tutt’al più un cucchiaio o una forchetta, mai il piatto.
La mia umiliazione è ad un tratto mista a collera. Collera contro questo zio Carlo che con intenzione comincia a discorre di prestiti di guerra: collera contro tutti costoro che si danno tante arie con le loro saggie parole; collera contro tutto questo mondo che vive nelle sue miserie, come se non ci fossero mai stati quei momenti tremendi, nei quali c’era una cosa sola: vita o morte e nient’altro.
In silenzio e ostinatamente ingozzo a più non posso, per lo meno voglio saziarmi a fondo. E appena mi riesce me la svigno e sbatto la porta.
Lupo mi ha aspettato davanti alla casa. Mi fa dei gran salti intorno. “Vieni, lupo! questa gente non fa per noi. Con qualunque soldato nemico c’intenderemmo meglio che con questa gente. Vieni, andiamo dai nostri compagni di trincea. Si sta meglio, anche se mangiano con le mani e se ruttano! Vieni!”
E ce n’andiamo di corsa, il cane e io, di corsa affannosa, sempre più veloci, ansando, abbaiando, corriamo come pazzi con gli occhi fiammeggianti… e tutto vada all’inferno… noi almeno siamo vivi, Lupo, noi viviamo!
Liceo Niccolò Copernico – Udine
La Grande Guerra: interventismo e disillusione – a cura di Alessandra Avellini, Michele Cestari, Margherita Driussi e Giada Elena Lalario
Introduzione
MICHELE CESTARI
La prima guerra mondiale descritta tramite le interpretazioni letterarie (e, spesso,
filosofiche) dei più vari autori di romanzi e poeti del primo novecento permettono
un’analisi del fenomeno bellico da una prospettiva ampia e polivoca, distante
dall’oggettività della storiografia, e tocca nell’intimo il grande tema del dopoguerra,
eredità di uno scisma cui trova genesi per il grande conflitto.
Gli autori, talvolta personalità, appartengono ognuno a un contesto, a una classe, a un
ruolo, una patria, diversi: eppure il sentimento rimane il medesimo, e l’esperienza
colpirà tragicamente tutti, affliggendoli profondamente ad armi riposte.
In conclusione, è noto come la maggior parte di questi autori subirono il fascino
degl’ideali musicati, ad arte, dalle volontà interventiste ed entrarono in guerra
convinti e fieri, guidati da un amor di patria destinato a perire in trincea, accanto ai
corpi di mille e mille altri giovani idealisti.
CHI?
LUSSU, Un anno sull’altipiano
Nel capitolo IX di Un anno sull’altipiano Emilio Lussu descrive la squadra della nona compagnia mentre rientra “in trincea
trascinando i cadaveri della pattuglia abbattuta”; a rendere la scena ancora più
raccapricciante è il capitano della squadra Canevacci il quale, deride follemente un
caporale che aveva perso la vita in battaglia.
A questa scena di totale disumanità, si contrappone l’umanità della natura
circostante e il comportamento di Lussu in una scena del capitolo XIX.
In tale capitolo il narratore osserva un soldato austriaco svolgere delle azioni
semplici e quotidiane, decide di non sparargli: “…Fu un attimo. Il mio atto del puntare
ch’era automatico, divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo contro qualcuno.
Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante.
Avevo di fronte un uomo….”
Lussu potrebbe sparare e uccidere il soldato austriaco che vede dalla feritoia, ma
decide di non farlo perché si riconosce in quello sconosciuto; non considera il
soldato austriaco un nemico ma lo vede come un uomo come lui, un uomo costretto
alla logorante vita di trincea come i soldati della sua brigata, un uomo che
probabilmente segue le sue stesse abitudini, che si ritrova ogni giorno a combattere
sul campo di battaglia avanzando verso l’ignoto e andando incontro alla morte.
Con l’esperienza della guerra.
Lussu si forma come persona e come uomo politico e da convinto interventista quale era
prima di arruolarsi si schiera nettamente contro gli orrori dei massacri diventando
antifascista. Alla fine del saggio Lussu capisce che la guerra è una sconfitta per tutti,
sia per l’esercito italiano che per quello austro-ungarico, e che anche una possibile
“vittoria mutilata” è effettivamente una sconfitta.
CHI?
Estratti di uno scambio epistolare fra Federico Cattelani e Ester Bernardi
(1914-1919), carteggio d’amore e di guerra di archivio familiare.
Federico entra nella Grande Guerra come Bersagliere di leva a ventun anni e ne
esce Capitano per comportamento eroico (congedo definitivo datato il 7 Aprile 1920).
Leggendo le lettere del mio bisnonno, si può notare un cambiamento di prospettiva sul tema della guerra. Viene definita fin da subito come “l’atto più mostruoso che possa concepire l’umana natura”. Ma se inizialmente, mosso dal suo ingenuo amore per la Patria e dall’odio per i tedeschi, la vede come una tappa inevitabile per un mondo all’insegna della civiltà, fede e giustizia, dopo aver fatto esperienza di tale guerra, Federico finirà col definire “idiota” chiunque la sostiene, dichiarandola una “vita cretina” e affermando: “Le atrocità continue della lotta feroce mi hanno atrofizzato il sentimento.”
Questa perdita di fiducia negli ideali e nelle convinzioni risalenti all’ingresso dell’Italia in
guerra sono in linea con il pensiero di uno degli autori più importanti di questo periodo, Giani Stuparich.
Il punto di vista dello scrittore emerge in particolare nel racconto “Guerra del ‘15”,
rivisitazione del suo diario di guerra dal giugno all’agosto 1915, che viene presentato
dall’autore stesso come un “documento psicologico e personale di quei mesi di guerra”.
Se la prima parte del romanzo è caratterizzata da uno stato d’animo entusiasta e fiducioso
nei confronti della guerra, vista come la via più veloce ed efficace per riconquistare Trieste, la sua amata città di origine; nella seconda parte emerge la visione disillusa dell’autore, che, rendendosi conto dell’effettiva impreparazione dell’esercito italiano e con la perdita dell’amico Slataper e del fratello Carlo, comprende la durezza e l’inutile violenza della guerra.
Come già precedentemente anticipato, quindi, Stuparich si rende conto dell’invalidità di
quegli ideali che non erano mai stati effettivamente suoi, ai quali si era aggrappato vivendo
una realtà illusoria, proprio come molti altri giovani, tra cui i già citati Lussu e il nonno
Federico.
Interventismo di D’annunzio
GIADA ELENA LALARIO
Agli inizi del ‘900, nelle sue opere D’annunzio esprime il lamento per la posizione neutralmente passiva dell’Italia: la guerra viene ritenuta strumento necessario al recupero dei vecchi valori, utile a riaffermare l’antica gloria dell’Impero Romano.
Allo scoppio del Conflitto nel 1914, in Francia il poeta inizia a scrivere articoli e poesie che
riaffermano la necessità dell’intervento del nostro Paese. Poco dopo la firma del patto di
Londra, tornato in patria, D’Annunzio rende nuovamente noto il suo interventismo nel
discorso augurale del 5 maggio 1915, sullo scoglio di Quarto, a Genova. L’orazione si
configura come una dichiarazione di guerra dell’Italia: attraverso la memoria delle imprese
dei Mille, D’Annunzio affronta il tema dell’interventismo e invoca all’unità della nazione.
In seguito nel suo Cento e cento e cento e cento pagine del Libro segreto di Gabriele
d’Annunzio tentato di morire, il Comandante descrive come il vero soldato debba dedicare
l’intera vita alla propria patria per vedere riconosciute la sua grandezza e magnanimità.
Al termine della guerra, nella primavera del 1919 D’Annunzio continua il suo interventismo
coniando lo slogan della “vittoria mutilata” E incitando le masse alla conquista di fiume.
A differenza degli altri poeti che si dimostrano pentiti della guerra, nel caso di D’Annunzio,
resta in dubbio un possibile pentimento.
Celine
MICHELE CESTARI
Celine servì come medico nella prima guerra mondiale, sul fronte d’oltralpe; egli,
convinto interventista, si scontrò presto con la necropoli delle trincee che l’occupò a
curare i malati e i feriti: queste due condizioni se le trascinerà anche nel dopoguerra,
dove osservò, parimenti, una Francia che mai come prima fu malata.
Céline, il disilluso per antonomasia, iniziò a nutrirsi di un disgusto che affligge
addirittura il suo stile e, sovente, riverbera sulla visione della società post-bellica ove
la modernità, troppo celebrata, fu la medesima che gli venne puntata contro in
battaglia, con i suoi carrarmati e gas nervini.
Céline è quindi un medico che tenta invano di curare una società in via di
decomposizione, scadendo invero in apostrofi impietose e spietate.
Gadda
MICHELE CESTARI
Gadda entra in guerra come convinto interventista, e ben presto sperimentò un grande lutto: la morte del fratello Enrico aviatore.
Questo dramma fu l’epifania: Gadda in verità apprese la notizia appena rincasato, finita la
prigionia, ove sua madre l’accolse piangendo e da lei appresa la notizia.
Queste furono le sue parole, riportate nel suo diario: la lunga, tristissima .-vita, speriamo passi presto, tutta la vita.
Anch’esso, parimenti a Céline, si portò appresso come giogo l’esperienza della guerra, che lo straziò eternamente.
Da La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda
Lettura di: Michele Cestari
…. Un sogno…. strisciatomi verso il cuore…. come insidia di serpe. Nero.
Era notte, forse tarda sera: ma una sera spaventosa, eterna, in cui non era più possibile ricostituire il tempo degli atti possibili, né cancellare la disperazione…. né il rimorso; né chiedere perdono di nulla…. di nulla! Gli anni erano finiti! In cui si poteva amare nostra madre…. carezzarla…. oh! aiutarla!…. Ogni finalità, ogni possibilità, si era impietrata nel buio…. Tutte le anime erano lontane come frantumi di mondi; perse nell’amore…. nella notte…. perdute…. appesantite dal silenzio, consce del nostro antico dileggio…. esuli senza carità da noi nella disperata notte….
E io ero come ora, qui. Sul terrazzo. Qui… nella nostra casa deserta, vuotata dalle anime…. e nella casa rimaneva qualcosa di mio, di mio, di serbato…. ma era vergogna indicibile alle anime…. degli atti, delle ricevute…. non ricordavo di che…. Le more della legge avevano avuto chiusura…. Il tempo era stato consumato! Tutto, nel buio, era impietrata memoria…. Nozione definita, incancellabile…. Delle ricevute…. che tutto, tutto era mio! mio!…. finalmente…. Come il rimorso.
Da Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu
Lettura di: Giada Elena Lalario
“L’ufficiale austriaco accese una sigaretta. Ora
egli fumava. Quella sigaretta creò un rapporto improvviso tra lui e me. Appena ne
vidi il fumo, anch’io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare
che anch’io avevo delle sigarette. Fu un attimo. Il mio atto del puntare ch’era
automatico, divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo contro qualcuno.
L’indice che toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato di
pensare.
Certo facevo coscientemente la guerra e la giustificavo moralmente e politicamente.
La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in conflitto con i miei doveri
militari. La guerra era per me, una dura necessità, terribile, certo, ma alla quale
ubbidivo, come ad una delle tante necessità, ingrate ma inevitabili, della vita.
Pertanto facevo la guerra e avevo il comando dei soldati. La facevo dunque
moralmente due volte. […]
E intanto non tiravo. […] Forse era quella calma completa che allontanava il mio
spirito dalla guerra. Avevo di fronte un ufficiale giovane, inconscio del pericolo che lo
sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella
distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe
stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia
volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo!
Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell’alba si faceva più chiara ed il
sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare così a pochi passi, su un
uomo…come su un cinghiale!
Cominciai a pensare che non avrei tirato. Pensavo. Condurre all’assalto cento
uomini, o mille, cento altri o mille altri è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal
resto degli uomini, poi dire: “Ecco, sta’ fermo, io ti sparo, io t’ uccido” è un’altra. Fare
la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa. Uccidere un uomo così, è
assassinare un uomo.”
da Morte a credito di Luis-Ferdinand Céline
Lettura di: Michele Cestari
Gli uomini che non vogliono né sventrare, né assassinare nessuno, i Pacifici puzzoni, che li si prenda e che li si squarti! E li si trucidi anche in tredici modi e ben studiati! Che per insegnar loro a vivere gli si strappi innanzitutto le trippe dal corpo, gli occhi dalle orbite, e gli anni della loro sporca vita bavosa! Che li si faccia per legioni e legioni ancora, crepare, che diventino zufoli, che sanguinino, che fumino negli acidi, e tutto questo perché la Patria sia più amata, più gioiosa e più dolce! E se ci sono qua degli immondi che si rifiutano di comprendere queste cose sublimi, devono solo andare a seppellirsi subito con gli altri, non del tutto, ma nell’angolo più nascosto del cimitero sotto l’epitaffio infamante dei vili senza ideale, poiché avranno perduto, questi ignobili, il magnifico diritto a un po’ d’ombra del monumento aggiudicatario e comunale innalzato per dei morti perbene nel viale del centro, e poi avranno perduto anche il diritto di raccogliere un po’ d’eco del Ministro che verrà questa domenica ancora a urinare dal Prefetto e dopo pranzo a fremere con il muso sopra le tombe …
Laboratorio di storia
IIS J. Linussio – Codroipo
Il milite ignoto
a cura di Miruna Nastasa
Articolo 1
DAL GIORNALE DI UDINE 29 OTTOBRE 1920
LE ONORANZE DEL MILITE IGNOTO
A TREVISO E A VENEZIA
VENEZIA 29 (notte – per telefono)
Alla partenza del treno da Treviso le bandiere delle Associazioni si schierarono abbassandosi in segno di saluto. Da Treviso in poi, in tutte le stazioni si sono ripetute manifestazioni specialmente a Mogliano ove tutta la popolazione raccolta alla stazione asistette ad una breve funzione religiosa che accompagnò col canto inginocchiandosi.
Il treno ha poi sostato a Mestre, quasi un’ora ove si è avuto pure una enorme affluenza di folla e di bandiere.
Il treno ha quindi proseguito per Venezia dove giunse alle ore 20.30.
Dopo la benedizione della salma, un grande corteo di associazioni con moltissime bandiere davanti al feretro.
In città tutti i negozi erano chiusi e nei pressi della stazione una folla enorme stipava la fondamenta.
La salma rimarrà stanotte sotto la tettoia in custodia della solita scorta e domani alle ore 8 proseguirà per Padova, Ferrara e Bologna.
Articolo 2
LA FESTA LEGALE DEL 4
ROMA, 29 OTTOBRE
Il Re ha firmato il decreto che dichiara giorno festivo il 4 novembre 1921 dedicato alla celebrazione del Soldato Ignoto
L’avventura di D’Annunzio a Fiume
a cura di Jasmin Liani
Inizio
5 SETTEMBRE 1919
La città di Fiume era stata promessa all’Italia nel famoso patto di Londra, con cui l’Italia era
entrata in guerra, dagli inglesi; solo che quando gli stati vincitori (Francia, Stati Uniti e
Inghilterra) si ritrovarono nella conferenza di pace di Parigi, il nuovo presidente americano
Wilson, colui che instaurò i 14 punti cercando di fondare un nuovo ordine europeo in cui non ci
fossero guerre, aveva fissato il principio della autodeterminazione dei popoli e quindi Fiume
aveva questo problema, cioè era abitato prevalentemente da popolazioni slave ma era in
maggioranza italiano e così ci fu un lungo tira e molla tra Italia e il neonato stato iugoslavo, ma
non si decise nulla; e per forzare la mano D’Annunzio prova questo atto di forza.
Qui si fa riferimento alla gloria dell’Italia cioè Vittorio Veneto, la battaglia definitiva della prima
guerra mondiale.
Tentativo di porre fine
DICEMBRE 1920
Fiume ora è un mix tra nazionalisti, fascisti e gente che non si limita solo alla gloria dell’Italia ma anche coloro che hanno approcci più variegati sulla politica come gli anticonformisti ecc.
In quest’anno ci fu il trattato di Rapallo con cui l’Italia e la Jugoslavia si misero d’accordo e decisero di porre fine a questa reggenza di D’Annunzio e di creare uno stato autonomo di Fiume, quindi che non fosse ne italiano ne iugoslavo e che appartenesse solo a Fiume stessa.
Con questo accordo gli italiani dovettero cacciare D’Annunzio, e quindi l’esercito italiano si scontrò contro i miliziani dannunziani in questo periodo, che venne definito il “Natale di sangue”.
Qui si parla dell’Italia divisa in due parti:
1. L’Italia mortale e contingente che riguarda la popolazione del 1920 in Italia, ma
soprattutto, formata dai giovani con i loro interessi, la loro tranquillità e i loro rancori
2. L’Italia immortale e divina che appartiene alla storia, e che vive nel susseguirsi di tutte le
generazioni e che riguarda quindi anche i morti e i nascituri.
Fine
30 DICEMBRE 1920
Con il termine “Tregua delle armi” si intende dire che la guerra è finita, gli stati si sono arresi e alla fine finirà il governo di D’Annunzio e nascerà lo stato libero di Fiume.
Liceo Caterina Percoto – Udine
Nell’articolo del 24 ottobre 1922 viene riportato il discorso di Giolitti. Nella prima parte parla del partito fascista e delle sue motivazioni. L’articolo dice: “Un nuovo partito si affaccia alla vita politica italiana”; “…programma di quel partito: di rialzare cioè l’autorità dello Stato per la salvezza, la grandezza e la prosperità della patria” Dice anche che “non tarderà a ristabilirsi la pace sociale in tutta l’Italia” Nella seconda parte Giolitti parla delle sue preoccupazioni riguardo la moneta: “ La nostra lira non vale più che 23 centesimi”
In un altro articolo del 24 ottobre 1922 si parla dell’adunata di Napoli del partito fascista. “Fin da stamane una folla immensa s’accalca intorno alla stazione per assistere all’arrivo delle squadre fasciste” Sappiamo che con questo evento inizia la marcia su Roma.
Nell’articolo del 28 ottobre 1922 si annuncia “Il Ministero Facta si è dimesso” e si parla dell’arrivo del re a Roma e del suo colloquio con il presidente del consiglio dimissionario Luigi Facta. “Stasera alle ore 20 è giunto in Roma il Re, accompagnato dal ministro della real casa Mattioli Pasqualini…”; “Stasera alle ore 21.30 il Re ha ricevuto a Villa Savoia l’on. Facta”
Nell’articolo del 29-30 Ottobre 1922 si parla della marcia su Roma. In questo momento non c’erano comunicazioni di conflitto: “Il movimento procede senza sussulti e noi crediamo che la sua durata sarà brevissima. Confortante risulta la disciplina delle camicie nere. Di nessun conflitto finora si ha comunicazione”
Nell’articolo del 31 ottobre 1922 si parla del nuovo ministero e del colloquio fra il re Vittorio Emanuele e Mussolini. Questo evento viene definito “storico”
Credits Ragazzi in piazza
DOCENTI
Paolo Mattotti – IT Zanon
Paola Longhino – IT Zanon
Eleonora Clocchiatti – Liceo Copernico
Sergio Luciano – Liceo Copernico
Gloria Perosa – IIS Linussio
Carla Tonizzo – IIS Linussio
Chiara Tempo – Liceo Percoto
Fabiola De Filippo – Liceo Percoto
Emanuele Bonutti – Liceo Percoto
Franco Romanelli – Liceo Stellini
Maria Liana Rigutto – ISIS Stringher
Anna Traversa – ISIS Stringher
STUDENTI COORDINATORI
Michele Cestari – Liceo Copernico
Giada Lalario – Liceo Copernico
Francesco Gnazoublè – IIS Linussio
Leonardo Borroni – IIS Linussio
Gaia Megan Benzi – Liceo Percoto
Letizia Cisint – Liceo Percoto
Irene Picco – Liceo Percoto
Caterina Turco – Liceo Stellini
Andrei George Pana – ISIS Stringher
CONFERENZE
Enrico Folisi
Gianni Cianchi
Antonella Sbuelz
Raffaella Sgubin
LABORATORIO DI STORIA
Carlo Federico Del Mestre
LABORATORIO DI FOTOGRAFIA
Franco Martelli Rossi
LABORATORIO DI PROGETTO
Francesco Accomando
TEATRO CLUB UDINE
Presidente | Alessandra Pergolese
Direzione artistica progetti educativi | Francesco Accomando
Assistente | Eleonora Lavia
Segreteria | Alessandra Spangaro
Amministrazione | Irene Maiolin
Ufficio stampa | Stefano Zucchini
Sito | Mattia Verreschi
servizi webinar | Entract Multimedia, Carlo Della Vedova, Federico Taboga
Un grazie particolare al Liceo Scientifico Copernico per l’uso della piattaforma scolastica di Google Suite
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